GONE GIRL: analisi critica del film
Una analisi critica del Film__________________a cura di Sabina INCARDONA
“Chiedi un autografo all’assassino, guarda il colpevole da vicino. Ed approfitta finché resta dov’è: toccagli la gamba! Fagli una domanda, cattiva, spietata!” Samuele Bersani – “Cattiva”
Tutto il mondo parla di GONE GIRL. Già da un paio d’anni a dire la verità, ovvero da quando il libro di Gyllian Flynn è diventato il più importante fenomeno letterario del 2012, sfumature di grigio a parte. Nel 2013 Reese Whiterspoon compra i diritti di questo fortunatissimo libro, una “crime novel” al femminile e produce il film Gone Girl, diretto da David Fincher e sceneggiato da Gyllian Flynn, distribuito in Italia con l’irritante storpiatura del titolo originale in “L’AMORE BUGIARDO”.
Attenzione: questa mia non è l’apologia della mantide. Non è la difesa strenua delle donna tout court, anche quando da vittima diventa carnefice. Questa mia è la lettura di un film talmente complesso, nella sua costruzione e nella morale, che meriterebbe più di una lettura. Da quella più strettamente tecnica legata al “genere” in cui si potrebbe collocarlo, ossia il thriller, di cui può farsi fiero e testimonial senza competitori all’altezza da almeno una decina d’anni, a quella del suo significato o meglio dei suoi mille significati o “messaggi” (come si è soliti definirli oggi). Tralascerò qui i tecnicismi, che comunque potrebbero colmare eventuali lacune di senso, e mi concentrerò sul senso, tentando di fare alla Marshall McLuhan, lanciando “razzi”, provocazioni, proponendo idee, senza confermare se sia o meno in mio pensiero a riguardo. Tanto qui non interessa a nessuno.
Di cosa parla GONE GIRL? Di matrimonio. I due creativi e belli da manuale Nick e Amy si incontrano a New York si amano, si sposano e tutto procede a meraviglia (Siamo così belli che vorrei prenderci a pugni in faccia, scrive Amy nel suo diario) finché entrambi perdono il lavoro, si trasferiscono nel Missouri ed inizia, insieme a quella economica, anche la crisi matrimoniale: lui trascura lei, lei rimbrotta lui.
La colta e plurilaureata Amy, e il “sempliciotto” Nick. Come potrebbe Nick competere con Amazing Amy? Nemmeno lei riesce a farlo, nemmeno Amy stessa è all’altezza di Amazing Amy, ovvero la propria perfetta rappresentazione raffigurata nell’omonima collana di narrativa per l’infanzia che ha fatto la fortuna dei perfetti genitori di Amy, una coppia di scrittori. Immaginate una raffigurazione perenne della bambina migliore di te che ti accompagna per tutta la vita e vi verrà di correre ad abbracciare la povera Amy, così amata dal pubblico quanto poco amata dalla propria famiglia.
Fatto sta, un giorno Amy sparisce (Gone Girl, appunto) e l’attenzione dei media si concentra sul marito che accumula clichés e ovviamente la tradisce. “La soluzione più semplice è di solito la migliore”. Non ne è del tutto convinta la poliziotta che indaga sul caso. Tuttavia, procedendo per ovvietà, non ci stupiamo quando Nick viene crocifisso, assolto, umiliato, beatificato a seconda di avvenimenti/testimonianze/ritrovamenti. La gogna mediatica è un carnevale già visto da tutti noi ogni giorno nei programmi tv e nei telegiornali. E Nick Dunne, pronto a tutto per difendersi e addestrato dal proprio avvocato di New York, noto squalo “difensore dei mariti assassini”, per prepararsi alla sua intervista-live, studia il video di Hugh Grant che chiede perdono all’America dopo essersi fatto beccare con la prostituta Divine. Ricordate? Sono certa di sì. E’ un successo. I ruoli si ribaltano. Il figliol prodigo è riaccolto a braccia aperte nel ventre di sua madre, la signora e padrona “opinione pubblica”, che fino a qual momento lo aveva fagocitato e fatto in pezzi.
Il film procede magistralmente in un gioco delle tre carte sulla morale, spostando di continuo l’assegnatario del titolo di “buono” e “cattivo”. Una cosa simile la vidi solo in Dogville di Lars Von Trier. In questo inganno fatto di sfumature e pause eloquenti, vien messo in scena il ribaltamento dei ruoli di vittima e carnefice, ad opera della mano sapiente di colei che terrà stretto per sé, fino alla fine, il ruolo di vittima: Amy, il sesso debole, la moglie, la donna. La probabile vittima di “femminicidio” (termine fuorviante o orribile che accentua ancora di più ciò che vorrebbe difendere: la differenza di genere, sessuale). Amy Dunne, bellissima brillante amata da tutti quelli che l’hanno avvicinata tanto da esser stata puntualmente tormentata da chiunque da lei sia stato abbandonato. Amy Dunne, che improvvisamente scopriamo essere la stronza, la psicopatica, fredda e calcolatrice nella sua maniacale precisione, a tal punto impeccabile da far storcere il naso allo spettatore più scettico che sfuggendo al processo di identificazione si domanda “Ma come è possibile? Ma dai, nessuno riuscirebbe a far tanto nella realtà”. Eppure, personalmente, non ne sarei tanto convinta. Amy Dunne non sbaglia un colpo. Amy Dunne viene picchiata e derubata da due giovinastri cui pensava di mangiare sulla testa? Tifiamo per loro. Godiamo. Amy Dunne chiede aiuto a una sua ex-fiamma/scampata vittima che tenta di ridurla in schiavitù facendole scontare il dolore che lei, una volta tanto tempo fa, gli ha provocato? Tifiamo per lui. Godiamo.
Eppure Amy ce la fa. E proprio sul finale, quando ormai nessuno ha più coraggio di difenderla e tutti noi vorremmo vederla cadere, dobbiamo quasi ammettere che Amy Dunne ha avuto ragione a fare quello che ha fatto. Persino il marito lo sa, che ha ragione lei. Che è stato costruito lei. Perché senza di lei sarebbe uno che si accontenta di una moglie sciocchina ed entusiasta, superficiale e contenta. Sarebbe l’uomo da esibire in società “addestrato come una scimmietta” da una moglie da cui “fuggire come da una guardia di vigilanza”. Lui lo sa che tutto quello chi è diventato lo deve a lei “L’unico periodo in cui ti sei piaciuto è stato quando cercavi di essere qualcuno che potesse piacere a questa stronza”, sussurra in un orecchio Amy al marito che è pronto a scendere le scale e gridare ai microfoni del mondo la propria verità di vittima e a mettere in atto una fuga cui lui stesso, subito dopo queste parole, rinuncerà. Adeguandosi. Forse riconoscendosi nella parole di lei.
Gone Man, il seguito? Chi lo sa.