Per una “Nuova Costituzione”
– Intervista a Carlo Vivaldi Forti
INTERVISTA a CARLO VIVALDI-FORTI
______________a cura di Alberto SPAGNA
Il Professor Carlo Vivaldi-Forti, da tempo nostro collaboratore, ha pubblicato di recente un e-book con ITALICAEBOOKS (www.italicaebooks.it), dal titolo Una nuova Costituzione per un nuovo modello di sviluppo. Nel momento stesso in cui invitiamo i nostri lettori a collegarsi col sito indicato per non perdere l’occasione di formarsi tra l’altro una precisa opinione sulle riforme di Renzi e sui loro veri scopi, abbiamo ritenuto utile porre alcune domande all’autore.
Prima di riportare il testo dell’intervista, ringraziamo il Prof. Vivaldi-Forti per il tempo che ci ha dedicato. Il Suo libro è peraltro ricco di molti altri spunti, che per motivi di spazio non possiamo trattare in questa sede. Possiamo soltanto raccomandare ai nostri lettori – che ci seguono principalmente su IL BORGHESE e/o sulla CONSULPRESS di collegarsi su Internet e formarsi essi stessi un’opinione su tale decisivo argomento. L’articolo sarà pubblicato anche sul numero de Il Borghese di Gennaio.
Prof. Vivaldi-Forti, com’è nata l’idea di dedicar un saggio al problema delle riforme costituzionali? «Ho ritenuto indispensabile chiarire alcuni aspetti fondamentali del costituzionalismo, vista la grande confusione che regna su questi temi nell’opinione pubblica, compresa quella di destra, che sembra avere smarrito il senso della propria battaglia e il ricordo delle proprie origini.»
Si riferisce forse agli accordi del Nazareno e all’appoggio di Forza Italia ai progetti del governo? «Gli accordi del Nazareno sono la conseguenza della sconfitta elettorale del centrodestra il quale, in sei anni, ha più o meno dimezzato la propria consistenza numerica, e della sua incapacità a concepire proposte originali, in armonia con la sua tradizione storica. A ciò, aggiungiamo il tentativo di Berlusconi di restare comunque sulla scena, mentre politicamente è finito nel novembre 2011, quando si è piegato al ricatto dei poteri forti italiani, pilotati dalla mafia finanziaria internazionale.»
Secondo quanto afferma, allora, sembrerebbe che le riforme volute dall’attuale esecutivo si muovano in direzione contraria ai veri interessi del Paese. In due parole, ci potrebbe spiegare in cosa consistono i lati negativi che Lei vi ravvisa? «La puntuale descrizione di questi esigerebbe ben più di due parole, mi limiterò a confermare che l’impianto delle riforme renziane va nella direzione opposta a quella di cui il Paese avrebbe bisogno. Noi veniamo da due esperienze traumatiche, prodottesi nel breve volgere di un ventennio: la caduta della Prima e quella della Seconda Repubblica. Entrambe sono state travolte per via giudiziaria, ossia per motivi di corruzione. Ma come nasce questa corruzione così diffusa, da porre addirittura in crisi il sistema di governo? Essa trae origine dallo strapotere dei partiti e dalla loro associazione con i potentati economici, sia interni sia esteri. Questi ultimi, poi, hanno assunto un totale controllo sui primi, annullando qualsiasi concreta differenza tra le diverse forze politiche. Tutte, infatti, sono soggette agli ordini di scuderia delle multinazionali, dei grandi monopoli e delle banche, in modo che l’alternarsi di esecutivi di segno opposto non determina alcun mutamento sostanziale nella vita del Paese. La tragica esperienza dell’ultimo ventennio lo conferma: che il premier fosse Berlusconi, Prodi, D’Alema, Amato, Monti, Letta o Renzi, la politica economica e sociale ha seguito un solo indirizzo: tasse, nient’altro che tasse, distruzione della ricchezza accumulata dalle imprese e dalle famiglie, impossibilità di produrne di nuova. Ebbene, tutte le riforme di Renzi, da quella del Senato e delle Province, fino all’innalzamento del quorum per la raccolta referendaria delle firme, non fanno che accrescere l’egemonia dei partiti, trasferendo allo Stato quelle sia pur piccole quote di sovranità ancora in possesso dei cittadini. Tutto ciò, in nome di una presunta semplificazione della macchina di governo: in realtà per rafforzare il dominio di chi vi sta dietro, ossia dei poteri forti. Se questa politica dovesse avere successo, come purtroppo temiamo, nel nostro futuro non vi sarebbero che miseria e corruzione, fino all’inevitabile implosione del sistema politico e sociale.»
D’accordo, ma cosa propone Lei, di diverso, per evitare che questo si realizzi? «Lo scopo delle riforme prese in esame nel libro hanno lo scopo di accrescere il potere dei cittadini che lavorano e producono, ossia della società civile, riducendo parallelamente quello dello Stato, dei partiti e della burocrazia, inaugurando all’opposto una forma ampiamente partecipativa nella convivenza civile. Non si tratta di una ricetta liberista, bensì di un nuovo concetto dei rapporti fra il cittadino e l’autorità pubblica, fondato su un modello totalmente nuovo di rappresentanza. Questo, per sottrarsi all’egemonia di cui ho parlato, prevede due Camere: quella dei Deputati, eletta come oggi dai partiti, ma in conformità a una legge elettorale in grado di garantire il bipolarismo; l’altra, il Senato, eletta sulla base delle competenze, delle categorie economiche, sociali e culturali. Entrambe dotate degli stessi poteri, altrimenti la riforma non produrrebbe risultati. Tale concezione della rappresentanza si potrebbe realizzare anche in regime monocamerale, se piacesse di più, a condizione che il 50 per cento dei membri fosse eletto dai partiti e l’altro 50 per cento dalle categorie. Infine, prevedo l’elezione diretta del Capo dello Stato, i cui poteri dovrebbero essere incrementati secondo il modello francese, che per l’Italia preferisco a quello americano.»
Non crede che una riforma di questa natura possa essere tacciata di filofascismo? La Sua Camera delle Competenze in cosa differisce da quella dei Fasci e delle Corporazioni di mussoliniana memoria? «L’esperienza corporativa fascista non rappresenta per me un modello ispiratore, ma soltanto un interessante oggetto di studio. Essa, però, differisce in modo sostanziale da quella che propongo. Infatti, le corporazioni fasciste erano organi di diritto pubblico i cui funzionari, dai più modesti ai più elevati di grado, venivano nominati dall’alto. Anche per questo, il pur stimolante e innovativo progetto di creare una democrazia sociale da parte del fascismo è naufragato nella dittatura. Ma le ragioni sono anche altre. Accanto alla Camera corporativa si collocava un Senato di nomina regia, e perciò del tutto estraneo alla volontà popolare, cui peraltro va riconosciuto il merito storico di aver garantito una certa libertà di parola durante il Ventennio, (pensiamo agli interventi di opposizione di Benedetto Croce), ma di sicuro non assolveva ad alcuna funzione di rappresentanza. Nel mio progetto, invece, i partiti eleggono ancora, in forma tradizionale, metà del Parlamento, e, per l’altra metà, i competenti sono scelti dal basso, del tutto liberamente, nell’ambito delle rispettive organizzazione di categoria, nomina confermata dal voto popolare, con accettazione o rifiuto delle liste. Infine, il Capo dello Stato, elettivo a suffragio universale, si costituisce garante supremo degli equilibri politici.»
Ho capito perfettamente la differenza tra la Sua proposta e il corporativismo fascista. Non crede, però, che due forme di rappresentanza così diverse, cui si attribuiscono peraltro poteri equivalenti, possano generare una paralisi legislativa? «Questa obiezione è di sicuro più fondata della precedente. Senza dubbio il nuovo sistema di rappresentanza avrà bisogno di un periodo di rodaggio, trattandosi di ricondurre in ambiti desueti, per la mentalità corrente, le funzioni rispettive dei partiti e della società civile. Oggi, infatti, la classe politica è abituata a fare e disfare a suo totale arbitrio, oltre che a godere di uno status privilegiato. A sua volta, la società civile sa bene che se vuole ottenere qualcosa deve inchinarsi ai potentati locali e nazionali, causa sia della corruzione, sia dell’infeudamento territoriale dei partiti, che spesso transita da una generazione all’altra. Con la riforma da me prospettata, questa subordinazione cessa: i partiti tornano a svolgere il compito per cui sono nati, cioè l’orientamento ideale del sistema, mentre la società civile assume funzioni di autogoverno, che la liberano dai ricatti degli intermediari politici e la responsabilizzano al tempo stesso. Di questo nuovo equilibrio di poteri, che trascende radicalmente la tripartizione classica del Montesquieu, nasce la necessità di un nuovo dialogo fra società e politica, da cui scaturirà l’armonia sociale del futuro. L’uomo moderno, al punto in cui si trova, è maturo per un cambiamento di questa portata. Anzi, esso rappresenta la sua unica possibilità di salvezza e di prevenzione di un ritorno alla barbarie.»
Al termine di questa chiacchierata, vorrebbe informare i lettori sulla struttura della Sua opera ? «Il saggio si divide in parti distinte. Inizio ponendomi la domanda: quando cambiano le Costituzioni? Per rispondere passo in rassegna le esperienze storiche più significative, antiche e moderne. Giungendo quindi ai nostri giorni, dedico una particolare attenzione alla Francia, non soltanto perché la maggior parte degli esperimenti costituzionali è stata condotta in quel Paese, ma anche perché le istituzioni della Quinta Repubblica, dovute al generale De Gaulle, si sono mostrate tra le più stabili e resistenti, le più adatte ad un modello socio-politico che è, in Europa, quello maggiormente simile al nostro. Condotto un ragionamento critico su questo, passo infine alle proposte concrete del caso Italia, nel senso già da me specificato.»
Un’ultima domanda. Il Suo libro tratta anche delle crisi della giustizia. Qual è, in una battuta, la riforma della Magistratura che Lei raccomanda? Dedico un paragrafo a questo tema nella parte finale. In due parole, vedo il superamento della crisi e delle contraddizioni dell’ordine giudiziario in una semplicissima ricetta: l’elezione popolare dei giudici, in analogia con il modello americano. Questo modo di formare il terzo potere dello Stato è fra l’altro il solo coerente con una società integralmente partecipativa.»