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un intervento di Franco Cardini

DOMENICA 11 GENNAIO 2015: BATTESIMO DI NOSTRO SIGNOR GESU’ CRISTO

…MAIS JE NE SUIS PAS CHARLIE _____________________Franco  CARDINI 

 Credo che almeno una volta nella vita di ciascuno di noi sia accaduto di sentirsi coinvolgere e quasi trascinare dal caleidoscopio misterioso e inquietante delle coincidenze e delle sincronicità: e di essersi chiesto se tutto ciò non rappresenti un messaggio, un presagio. A me è accaduto proprio nella prima settimana di quest’anno: un breve periodo che avevo da tempo deciso di consacrare a un viaggio che mi avrebbe portato ancora una volta, dopo alcuni anni, in un paese che conosco abbastanza e che amo: la Giordania.

Avrei voluto rivisitare con calma soprattutto le sue memorie crociate, oggetto di studi che ho negli ultimi tempi un po’ lasciato da parte, mai però abbandonati: i castelli crociati di Kerak (il “Kerak di Moab”, la Petra Deserti), di Shauwbak (il “Kerak di Montréal”) e soprattutto quello di al-Wouhaira sito non lontano dalla splendida “città morta” di Petra e lungamente studiato con entusiasmo da un’équipe di archeologi medievisti dell’Università di Firenze guidata dall’amico e collega Guido Vannini. Quel loro generoso lavoro mi è particolarmente caro in quanto, una trentina di anni or sono, anch’io partecipai insieme con Vannini ad avviarlo.

Ma volevo fare anche altre cose. Sulla montagna del Monte Nebo, alta a dominare da est l’area nella quale il Giordano sfocia nel Morto, là dove secondo la tradizione Mosè avrebbe avuto da Dio la grazia di gettare lo sguardo sulla Terra Promessa prima di chiudere gli occhi e di esservi sepolto, una splendida figura di religioso e di archeologo, il francescano padre Michele Piccirillo, ha lavorato per lunghi decenni raccogliendo un autentico tesoro: decine e decine di metri quadrati di splendidi mosaici paleocristiani. Michele non era per me soltanto un amico fraterno: era anche un maestro, nonostante fosse di quattro anni più giovane di me. Una malattia incurabile, da lui affrontata con coraggio e in francescana letizia, ce lo ha strappato nel 2008 appena sessantaquattrenne. Ora dorme sull’alto della “sua” montagna del Nebo, in un semplice giardinetto aperto al sole, al vento e alle stelle: e ho avuto la mesta gioia di visitarlo per la prima volta dopo averlo accompagnato, sette anni fa, durante gli ultimi giorni della sua vita.

Mi ha molto colpito, pochi giorni fa, anche una “coincidenza”, una fortuna: quella di poter visitare di nuovo il luogo, sulla riva del Giordano, nel quale tradizionalmente Gesù ricevette l’acqua del battesimo da Giovanni Battista; e quindi salire sull’altura del “Macheronte”, in vista del Mar Morto, dove si ergeva presso una celebre fonte d’acqua termale il palazzo-fortezza di Erode IV Antipa e dove, sempre secondo la tradizione, il Battista sarebbe stato decapitato.

Ma ecco, a quel punto, il colpo di scena: sull’interno della Giordania il tempo è cambiato, un rigore invernale precoce e più duro del solito a quella latitudine ha provocato il cader della neve su un paese che, al riguardo, non è granché attrezzato. Proprio mentre stavo pensando a un rientro anticipato per evitare il possibile blocco degli aeroporti e dei voli, venerdì 7 sera, sono stato raggiunto dalle spaventose notizie riguardanti il massacro dei redattori del settimanale “Charlie Hebdo” e l’uccisione di alcuni poliziotti (tra cui un musulmano) perpetrato a Parigi dai fratelli Said e Chérif Chaouki, i legami dei quali con un qualche gruppo connesso ad al-Qaeda sono ancora da chiarire; e 2 uno dei quotidiani ai quali collaboro abitualmente mi ha raggiunto chiedendomi di rientrare immediatamente a Parigi e di seguire lo svolgersi di una vicenda che si annunziava tragica. Nelle giornate tra l’8 e l’11 (e nella serata di domenica 11 sto appunto buttando giù queste note) ho seguito di continuo e da vicino, con attenzione, lo sviluppo degli avvenimenti: l’assurdo assassinio presso il parco di Montrouge, nel XIV arrondissement, di un’agente di polizia – una ragazza d’origine africana – da parte di un terzo terrorista, non è chiaro se collegato agli altri due (ma che ha rivendicato piuttosto il suo legame con l’IS del califfo al-Baghdadi), l’8; e quindi, in una sequenza mozzafiato, la tentata resistenza e la morte dei fratelli Chaouki, l’attacco del terzo terrorista la mattina di venerdì 9 a un supermercato kasher della Porte de Vincennes, nel XX arrondissement, l’uccisione da parte sua di quattro ostaggi – quattro cittadini di fede ebraica, che stavano facendo le loro compere per prepararsi allo shabbat – e infine la sua morte sotto i colpi della polizia che è riuscita a liberare gli altri ostaggi.

Ho ricavato, da questa dura e vorticosa esperienza, un senso di angoscia e di smarrimento.
Da una parte, la tragedia che ha toccato tutti i parigini e i francesi – cristiani, ebrei, musulmani e agnostici – ha provocato un’ondata di commozione e di sentimento di solidarietà davvero esemplare e toccante, che si è manifestato soprattutto nella grande “manifestazione repubblicana” di stasera. Dall’altra, ho vissuto con disagio il crescente vento di angoscia e di follìa che scompigliava con le sue folate la popolazione della Ville Lumière. Dovunque paura (“Siamo in guerra…”), isterismo (“L’Islam è tutto uguale, è sempre lo stesso…”), polemiche e contraddizioni (solidarietà nazionale raccomandata dal presidente della repubblica sì, ma con la partecipazione del Front National giammai; brava la nostra polizia, ma la morte di alcuni ostaggi alla Porte de Vincennes segna un fallimento delle forze dell’ordine; onore alle vittime di “Charlie Hebdo” nel nome della libertà di stampa sì, ma appello al tempo stesso al “silenzio-stampa” per facilitare il lavoro dei servizi e per non concedere ai terroristi quel che essi vogliono, cioè un’eccezionale visibilità). Lo stesso svolgersi della manifestazione odierna è stato segnato da contraddizioni che i solerti speakers delle varie televisioni presenti hanno cercato di nascondere o hanno implicitamente sottolineato: non sono mancati esponenti di organizzazioni cristiane e musulmane che non hanno sfilato con gli altri in quanto offesi o comunque disorientati dal fatto che molti manifestanti ostentavano alcune tra le copertine più apertamente satiriche per non dir blasfeme del noto settimanale; e la cerimonia in memoria delle vittime di religione ebraica tenutasi alla Sinagogue de la Victoire in presenza del presidente Hollande e del premier israeliano Nethanyahu ha lasciato in alcuni l’impressione di un prevalere delle interpretazioni secondo le quali nei tragici fatti di questi ultimi giorni il segno dell’antisemitismo sarebbe stato particolarmente intenso: il che ha rappresentato una forzatura, dal momento che l’indiscutibile antisionismo delle formazioni jihadiste estremistiche non ha comunque connotati razzisti ma trova la sua radice nell’irrisolta questione israelo-palestinese.

Insomma, Madame la France è sempre deliziosamente se stessa. La patria della libertà a tutto campo, senza se e senza ma – quella orgogliosamente definita dall’équipe di “Charlie Hebdo” – ma al tempo stesso anche delle leggi che proibiscono l’uso del velo femminile senza curarsi del fatto che una proibizione è altrettanto liberticida di un obbligo e che condannano come un crimine il “revisionismo” e il “negazionismo” senza nemmeno curarsi di definirli con precisione. Il paese il presidente del quale, l’ineffabile Monsieur Hollande, dichiara che il fondamentalismo musulmano è il primo pericolo pubblico “dimenticando” che meno di quattro anni fa, nel 2011, egli e il suo prediletto consigliere culturale Bernard Henri-Lévy promuovevano la caduta (riuscita) del libico Gheddafi e quella (fallita) del siriano Assad appoggiando quelle stesse milizie jihadiste che oggi considera nemiche.

Si va frattanto facendo strada l’idea che questi tre giorni siano stati, nel loro complesso, un “Undici Settembre” francese: il che ovviamente comporta la domanda relativa all’uso politico che, da parte di qualche dirigente, potrebbe venir proposto di tale analogia. Quali misure saranno richieste dai partiti e dai mass media, quali saranno adottate dal governo, per rispondere al duplice attentato del “Charlie Hebdo” e della Porte de Vincennes? Ricordiamo tutti con preoccupazione a quali errori condusse la war against Terror ingaggiata da George W. Bush jr. e dal suo team di governo prima con l’avventura afghana e poi con quella irakena. La Francia di Hollande si è distinta, in questi mesi, in scelte politiche e militari non felici tanto nel Vicino Oriente quanto nel continente africano: da qui la vera o falsa consapevolezza, comunque condivisa da molti media, che la Francia sia l’obiettivo di un pesante e non casuale attacco terroristico. Quel che da Parigi appare evidente è che l’appello “alla vigilanza, all’unità e alla mobilitazione” rivolto dal presidente Hollande durante il messaggio televisivo alla nazione la sera del 9 in vista della manifestazione nazionale unitaria prevista per domenica 11 (con o senza il Front National?), costituisce forse non soltanto, ma senza dubbio anche un tentativo estremo – e forse in extremis – per recuperare almeno in parte una popolarità che mai come in questi mesi era scesa a livelli tanto bassi. Anche una tragedia come quella di questi tre sanguinosi giorni può servire da pretesto per una strumentalizzazione demagogica. Purtroppo.

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Del resto, lo stesso accade forse anche “dall’altra parte”: ammesso che sia facile individuare con precisione le parti effettivamente in causa, nella complessa partita politica internazionale che si gioca attualmente nel mondo. All’interno dell’Islam politico, che riguarda solo una parte – e forse minoritaria – del circa un miliardo e mezzo di musulmani nel mondo ma che gestisce un potere politico immenso, si sta svolgendo una lotta senza esclusione di colpi (in arabo si chiama fitna, ed è solo inadeguato tradurre questa parola con l’espressione “guerra civile”) che oppone sunniti a sciiti, fautori di una pratica musulmana moderata e favorevole al dialogo con l’Occidente a partigiani della tabula rasa jihadista, sostenitori di differenti se non addirittura opposte soluzioni autoritarie (dagli emiri del Golfo alla dirigenza iraniana) e perfino estremisti che condividono una comune origine ideologica salafita ma che – come al-Qaeda e l’IS del califfo al-Baghdadi – sono in lotta tra loro. Dal punto di vista dei gruppi terroristici, la violenza e la ferocia sono uno strumento propagandistico: essi fanno a gara nel servirsene non solo in modo da provocare una dura risposta occidentale e poter quindi dimostrare alla pubblica opinione che fa rispettivamente loro capo che ciascuno di loro è l’autentico paladino del puro Islam, per questo candidato al martirio ed esposto ai coli degli infedeli. Se davvero i fratelli Chaouki, gli assassini dei redattori del “Charlie Hebdo”, erano vicini ad al-Qaeda, la loro azione sanguinosa era implicitamente diretta anche contro il concorrente di al-Qaeda, il califfo, per dimostrarne la minore capacità di colpire gli infedeli, e contro i musulmani moderati, per rendere sempre più difficile il loro dialogo con l’Occidente. Semmai, è interessante seguire gli sviluppi di queste nuove tecniche di reclutamento di “soldati politico-religiosi” che appaiono sempre più degli emarginati, degli sbandati, dei Lumpenterroristen che giungono alla militanza (siano musulmani di nascita o convertiti) senza preparazione religiosa o quasi, attraverso “l’università del crimine” del carcere – che per tanti detenuti musulmani è anche una “madrasa del crimine” – oppure attreverso la propaganda on line della quale soprattutto quelli dell’IS sono maestri. Si diventa musulmani, e jihadisti, e perfino terroristi assassini, anche “chattando”: barbarie certo, sicuramente, ma raggiunta attraverso un atroce gioco postmoderno, altro che una ricaduta nell’atavismo!

C’è comunque del metodo, nella follìa. Gli estremisti si somigliano sempre e si sostengono a vicenda. Usama bin Laden sarebbe stato impensabile senza la propaganda di neo-cons e theo-cons: e viceversa. L’estremismo jihadista confida nel fondamentalismo occidentalista: chi annovera tra i suoi primi nemici “i sionisti e i crociati” spera ardentemente che i “crociati”, cioè appunto gli occidentali, ricomincino presto a fare il loro mestiere: la collezione di errori e di sciocchezze che ha segnato gli interventi in Afghanistan e in Iraq. Sarebbe bello poterli smentire entrambi. Purtroppo, invece, non è 4 improbabile che la loro stupidità trionfi di nuovo. Quella di Bush e di Bin Laden ci ha regalato tre lustri di guerre e di attentati. Vedremo quel che riuscirà a fare quella di Hollande e di al-Baghdadi.

Davanti alla tragedia parigina di questi quattro terribili giorni, mi sono sentito preda di sentimenti e di sensazioni contrastanti. Prima di tutto il dolore, la pietà, la solidarietà. Parigi è da molti anni la mia seconda città, per qualche verso ormai quasi la prima. Questa gente orgogliosa, scontrosa, a tratti perfino scortese, a modo suo “simpatica” come sanno esserlo i fiorentini, è la mia gente, ci lavoro e ci vivo in mezzo: le voglio bene, mi fa arrabbi re eppure ci sono affezionato. Vederla impaurita, disorientata, attraversata da sferzate di alterigia quasi patetica eppure al tempo stesso incredula (“perché a noi?”; “perché tanto odio?”), mi fa male e m’intenerisce.

Poi la meraviglia, la delusione, il disappunto. Insomma, perdinci, questa non è solo la capitale di un grande paese, la Francia: questa è per tanti versi una delle capitali politiche e culturali del mondo. Abitarci, lavorarci, insomma viverci, è un immenso privilegio: e i privilegi comportano responsabilità maggiori, altrimenti diventano intollerabili ingiustizie. Ci sono stati come ho già detto in tre giorni, dal 7 al 9 gennaio scorsi, tre episodi criminali e terroristici differenti che sono costati la vita prima, il 7, a dodici persone tra redattori del settimanale “Charlie Hebdo” e poliziotti: quindi, l’8, a un’agente della polizia municipale abbattuta nel Parco di Montrouge (XIV arrondissement, quello “universitario”); infine, il 9, a quattro innocenti clienti di un supermercato kasher presi ostaggio dall’assassino della poliziotta alla Porte de Vincennes, nel XX. Il terzo episodio è quello che mi ha toccato più da vicino: nel XX arrondissement ho vissuto circa un anno, anni fa, quando insegnavo appunto all’università di “Paris VIII” allora a Vincennes (oggi spostata a Saint-Denis). Conosco quelle strade allegre, affollate di una moltitudine allegra e modesta di gente varia, cattolici, ortodossi greci e slavi, armeni, musulmani soprattutto sirolibanesi e maghrebini, ebrei di varia origine. Genti che si conosce, si saluta tutte le mattina, visita a turno i negozi gli uni degli altri, più che “tollerarsi” si vuole bene e condivide l’esistenza. Che proprio lì sia infuriata una rabbia che, sia chiaro, non è stata “razzista” (l’odio antiebraico che fa parte dell’ideologia di al-Qaeda dipende dagli sviluppi della situazione israelo-palestinese, non ha nulla di “razzistico” o di “antisemita”), ma che tuttavia ha mietuto la vita di quattro persone intente alla pacifica spesa quotidiana è particolarmente tragico. Ora, e ormai, più nulla sarà come prima. La comunità musulmana parigina ha reagito compatta, manifestando senza possibilità di equivoci il suo dolore e la solidarietà alle vittime. Pas à mon nom, versione francese del celebre Pas in my name dei pacifisti americani: questo si leggeva in molti cartelli inalberati da parte dalla folla dei cittadini di fede islamica riuniti attorno alla moschea per onorare le vittime del terrorismo e pregare per loro. Anche i tre attentatori sono morti: e la loro “ideologia” del martirio, sostenuta dagli aderenti alla galassia dei gruppi che si riconoscono in al-Qaeda, è stata così a modo suo onorata. Non ci si può aspettare che vi sia stato un ricordo anche per loro. Eppure le vicende delle loro vite, filtrate attraverso i media, parlano a loro volta il linguaggio della sofferenza, della fatica di vivere: la mancanza d’istruzione prima dell’“università del crimine”, il carcere, che ormai è spesso anche madrasa d’islamismo fondamentalista; la disoccupazione o la sottoccupazione; il confronto frustrante tra le propria emarginazione e l’opulenza di una città che alberga pure tante tragedie umane ma dove in apparenza opulenza e consumismo trionfano; in almeno un caso, turbe psichiche che a loro volta costituiscono una malattia che la miseria impedisce di curare; infine, la falsa redenzione di un credo fanatico di morte che con l’Islam non ha nulla a che fare per quanto si nutra di pochi versetti del Corano mandati a memoria. “Fanatici”, si è detto: ma come, ma perché, si diventa “fanatici”, e al punto di trasformarsi anche in assassini? “Fanatismo”: davvero possiamo accontentarci di questa spiegazione che non spiega un bel niente? E davvero tanta gente, tra le decine di migliaia di parigini e di francesi che in questi giorni hanno affollato le vie e le piazze manifestando la loro opposizione al terrorismo e il loro orgoglio di liberi cittadini che non si piegano dinanzi alla minaccia armata, non ha pensato nemmeno per un attimo che Parigi ha vissuto in tre giorni forse meno di un millesimo dell’ansia, della paura, del dolore che a Gaza, a Baghdad, a Kabul e in migliaia di città e di paesi sparsi tra Asia e Africa musulmani, ebrei e cristiani soffrono ogni giorno? “Siamo in guerra”, hanno ripetuto in tanti. Anche papa Francesco lo ha affermato, qualche mese fa: la terza guerra mondiale è già cominciata; Umberto Eco lo ha ripetuto su “Repubblica”. Ma in guerra fra chi, in guerra contro chi?

Non si erano forse accorti, i francesi, di essere in guerra già dal 2011, quando il presidente Hollande ha appoggiato con decisione le milizie jihadiste in Libia contro Gheddafi e in Siria contro Assad (e ciò, specie nel secondo caso, in diretto contrasto con le indicazioni delle stesse Chiesa cristiane locali)?

Anche a Tripoli, a Damasco, ad Aleppo, ci sono stati dei morti: molti più di quelli parigini di qualche giorno fa. Oggi alcune indiscrezioni rivelano che le costose armi automatiche usate dai fratelli Chaouki per lo sterminio dei redattori di “Charlie Hebdo” possono essere finite nelle loro mani in quanto parte delle dotazioni a suo tempo passate dal governo francese ai jihadisti antigheddafiani e antiassadisti. Ai jihadisti tra i quali militano anche alcuni ragazzi europei, magari convertiti all’Islam, che nello jihadismo hanno trovato, in forma distorta, un surrogato a quella cultura politica e religiosa che da noi ormai non s’imparte più. Ma davvero abbiamo la memoria tanto corta? Davvero ignoriamo che fino dagli Anni Settanta sono stati gli statunitensi che in Afghanistan, in funzione antisovietica, si sono serviti dei “guerrieri-missionari” fondamentalisti provenienti dall’Arabia Saudita e dallo Yemen preferendoli ai severi e rigorosi combattenti del comandante Massud, portatori di un Islam fiero e intransigente ma anche tollerante? Davvero ignoriamo che la malapianta del fondamentalismo l’abbiamo innaffiata e coltivata per anni noi occidentali, prima che verso la metà degli Anni Novanta i rapporti si guastassero? Sul serio non sappiamo nulla del fatto che ancor oggi lo jihadismo – quello di al-Qaeda e quello, rivale e concorrente, dello Islamic State del califfo al-Baghdadi – è sostenuto e aiutato, e neppure in modo troppo nascosto, da alcuni emirati della penisola arabica che pur sono tra i nostri più sicuri “alleati” nonché – e soprattutto – partners finanziari e commerciali. E’ vero che, com’è stato detto, pecunia non olet: eppure almeno il petrolio dovrebbe farlo.

Ma di tutto ciò, per ora, qui a Parigi nessuno fa ancora parola. Per la verità qualche critica comincia a far capolino, tra un blog e l’altro, fra un tweet e l’altro. Ma la Vulgata trionfa: bella, semplice, pulita. E maniacale, repellente nel suo manicheismo che si spera sia almeno in malafede, perché altrimenti sarebbe troppo idiota. La Vulgata dell’Occidente patria della libertà e della tolleranza, e dell’Altro, il Nemico, come orribile, mostruoso, disumano e quindi inumano e antiumano, fanatico e quindi privo di qualunque ragione, incomprensibile e quindi ingiustificabile perché indegno di quella forma di comprensione che non è sinonimo di giustificazione (come si può giustificare un assassinio?) bensì esercizio della critica, della capacità di penetrare i meccanismi intimi di qualcosa che pur si disapprova con orrore. Noi occidentali ci siamo sbrigativamente assolti da ogni errore e da qualunque crimine: al massimo, siamo disposti a rovesciarli sul nazismo (che però è un passo indietro verso il “buio medioevo”) o sullo stalinismo (che però è un tuffo nella “sanguinosa utopìa”). Al massimo, con uno sforzo, ammettiamo le violenze dei conquistadores. Sul resto, notte e nebbia: su secoli di rapina, di schiavismo, di sistematica razzìa di materie prime e di forza-lavoro, su cumuli d’infamie che abbiamo tuttavia coperto con la coltre benevola dei Diritti dell’Uomo e di una libertà-fratellanza-uguaglianza che al massimo cominciava da noi e finiva con noi. Anche i “lavoratori di tutto il mondo” che Marx ed Engels esortavano a unirsi, in fondo erano quelli compresi nel triangolo tra Parigi, Berlino e Londra: ne erano esclusi non diciamo i fellahin egiziani e i pastori afghani, ma perfino gli zappatori campani e i vignaioli greci.

Ecco perché rispetto profondamente il sacrificio dei redattori e dei disegnatori di “Charlie Hebdo” e mi sento solidale e commosso partecipe del dolore delle loro famiglie: eppure, pur sentendoli senza dubbio parte di quella cultura europea-occidentale che è anche la mia, non mi riconosco nella loro visione del mondo e rivendico il mio diritto a dichiararlo con identità. Essi erano, e i loro colleghi e sodali continuano ad esserlo, fautori di una libertà individuale illimitata, insofferente di limiti e di regole: non a caso il sottotitolo di “Charlie Hebdo” suona “Journal irrésponsable”. La loro libertà non era nemmeno tanto quella di Voltaire e di Rousseau, quanto semmai quella del marchese De Sade. La loro era la libertà di chi, arbitrariamente appiattendo le fede religiosa a una forma di filosofia o di ideologia, rivendicava il diritto di non temere conto di nulla che da milioni di altri esseri umani veniva giudicato sacrosanto e di poter caricaturizzare indiscriminatamente Maria Vergine o il profeta Muhammad al pari di Marx o di Obama.

Contro la loro libertà ispirata a De Sade, io rivendico la mia libertà ispirata a san Tommaso d’Aquino: una libertà responsabile, che termina dove comincia quella altrui e che è in grado di distinguere tra “libertà di”, “libertà da” e “libertà per”. Una libertà che non pensa orgogliosamente di potersi riallacciare a valori unilateralmente dichiarati “universali” ma che, memore dell’insegnamento di Claude Lévi-Strauss, tiene presente che è non meno “universale” e degno pertanto di rispetto qualunque altro valore sostenuto alla luce di culture diverse dalla nostra: diverse, non “inferiori”. Una libertà che non si esercita calpestando quella altrui. La Francia, che amo, si erge oggi nel suo dolore a paladina della Libertà con la maiuscola: eppure, anche recentissimamente, il suo parlamento ha adottato leggi liberticide come quella che proibisce alle donne musulmane l’uso pubblico del velo (anche a quelle che vogliono portarlo) e quella che rispolvera il vieto reato d’opinione punendo indiscriminatamente “revisionismo” e “negazionismo” senza neppur darsi la pena di definirli con chiarezza giuridica. Non solo il sogno della ragione, ma anche l’illusione della sua veglia, può creare dei mostri.

Ecco perché rispetto i caduti della redazione di “Charlie Hebdo”, m’inchino di fronte al loro sacrificio, deploro la violenza che li ha strappati alla vita e ai loro cari: ma rivendico il mio diritto a non solidarizzare con un giornale che mostrava in prima pagine la caricatura della Madonna che a gambe divaricate partorisce un grottesco Bambino Gesù. So bene che il problema non sta affatto nell’identificarsi o meno con “Charlie” ma nel ribadire che l’espressione di un parere, di un certo modo di vedere il mondo, può essere contestabile e perfino aberrante finché si vuole ma non può meritare la morte. Le nostre leggi garantiscono la libertà di espressione e di opinione, anche se e quando alcune espressioni di essa possono essere, nei confronti di alcuni, più lesive di un atto di violenza. Se un disegnatore di “Cahrlie Hebdo” mi avesse preso a pugni, sarebbe stato querelato, processato e probabilmente condannato; eppure, con quella vignetta della Vergine Maria profanata nell’atto intimo, sacro e misterioso del parto, egli mi ha fatto molto più male, mi ha offeso e colpito ancora più duramente; eppure la legge non mi fornisce alcuno strumento per reagire, per rivendicare la mia dignità. Certo, senza dubbio egli non meritava di morire per questo sotto i colpi di un assassino convinto per giunta di farsi con ciò strumento della volontà divina.
Non è ad ogni buon conto solo la morte dei poliziotti, che sono caduti nell’adempimento del loro dovere e meritano ogni onore, e nemmeno quella delle povere innocenti vite stroncate dei clienti ebrei del supermercato kasher a commuovermi e ad addolorarmi. Piango sinceramente la scomparsa dell’équipe di “Cahrlie Hebdo” e penso con grande mestizia al dolore di tante famiglie così duramente colpite. Ma non sono disposto per questo a rinunziare alla mia dignità e a una cultura, la mia, che è radicalmente lontana dalla loro; e il lutto, che va condiviso, non può comunque avvicinarla ad essa.

Non: désolé, mais je ne suis pas Charlie.