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L’Italia e le Agenzie di Rating

Il COMPORTAMENTO del GOVERNO ITALIANO PEGGIORE  di quello delle SOCIETA’ di RATING _________________una analisi di Riccardo PEDRIZZI *

Sembrava che con il passare del tempo si potesse incominciare a chiarire “l’affaire” del pagamento di 2,5 miliardi di euro alla banca d’affari MORGAN STANLEY da parte della Repubblica italiana a seguito del declassamento nel settembre 2011 attribuitoci dalla società di rating STANDARD & POOR’S.

Ma in questi giorni a Trani, dove si sta svolgendo il processo alle Società di Rating che avrebbero manipolato il mercato, è apparsa una relazione depositata alla Corte dei Conti dal dirigente generale del Ministero dell’Economia e delle Finanze, Maria Cannata, che conferma che l’accordo quadro sottoscritto nel 1994, quando era Direttore generale del Tesoro Mario Draghi (1994-2001), tra la Repubblica italiana e la Morgan Stanley “prevedeva il diritto di risoluzione anticipata dei contratti derivati al verificarsi di un determinato evento, definito anche in funzione del livello di rating”.

Nel frattempo la Procura di Trani ha depositato ulteriori elementi su intrecci, illegalità, e sui possibili collegamenti tra la bocciatura dell’Italia da parte di S & P, controllata da McGRAW HILL, colosso finanziario tra i cui azionisti c’ è proprio Morgan Stanley, e la decisione della banca Morgan Stanley.

La domanda da porsi, quindi, non è tanto, come da più parti si chiede, perchè si pagò senza nemmeno consultare l’Avvocatura dello Stato, una somma di quella portata. Ma piuttosto perché si sono sottoscritti in nome e per conto del popolo italiano contratti così rischiosi? E perché si erano utilizzati strumenti finanziari così opachi? Oltretutto non registrati in alcuna contabilità (per questo sono definiti OTC, Over the counter) né negoziati nelle Borse e nei mercati ufficiali.

In fondo la banca d’affari Morgan Stanley non ha fatto altro che il suo mestiere: speculare, fare affari e guadagnarci tanto, visto che ha chiuso il 2014 con un fatturato di 34,3 miliardi di dollari (+ 5,7% che ha consentito,  nel 2014, a James Gorman (56 anni e ceo chief executive officer della Morgan Stanley) di incassare 22,5 milioni di dollari, il 25% in più rispetto al 2013. Il suo stipendio base è pari a 1,5 milioni, ai quali però si sono aggiunti 14,5 milioni di bonus in contanti o in azioni, più altri 6,5 milioni di incentivi a vario titolo. Totale: 22,5 milioni (1).

Ma andiamo per ordine e cerchiamo di capirci qualcosa e di farlo capire ai nostri lettori.

La vicenda esplosa con gli addebiti avanzati dalla Procura di Trani contro Standard & Poor’s e Morgan Stanley, merita certamente un approfondimento. Tra il settembre del 2011 e il gennaio del 2012, S & P ha declassato due volte il debito sovrano italiano nonostante il Governo Monti stesse tentando di rimettere a posto la finanza pubblica. Il declassamento permise a Morgan Stanley di esercitare la clausola di uscita da un contratto di derivato e chiedere al M.E.F. una liquidazione di circa tre miliardi di euro; Morgan Stanley è azionista di McGraw Hill Financial Inc, società proprietaria di S &P, e quindi avrebbe avuto la possibilità di influenzare il giudizio dell’agenzia di rating per potersene avvantaggiare. Pur sapendo che a Trani c’era un procedimento penale in corso, il M.E.F. ha prontamente pagato quell’altissimo prezzo.

Il documento depositato a Trani costituisce in effetti una prova di quei contratti capestro, che ci costò 2,5 miliardi tra dicembre 2011 e gennaio 2012, pagati a Morgan Stanley dal Governo Monti. Peraltro la banca di affari era presieduta dall’ex direttore generale ed ex ministro dell’Economia Domenico Siniscalco. Quei contratti vennero sottoscritti nel 1994 da Mario Draghi (allora Direttore Generale) e da Carlo Azeglio Ciampi capo del Governo. I titoli derivati sottoscritti dallo Stato italiano negli anni ’90 ammontavano a circa 160 miliardi di euro, pari a 1/10 del Pil del nostro paese (ricordiamo che in quel periodo Mario Draghi era Direttore Generale del Tesoro) e su tale nozionale di 160 miliardi di derivati stipulati dal nostro Paese si registrano attualmente perdite potenziali per 34,4 miliardi (oltre il 20%, effettiva se si dovessero estinguere anticipatamente).

A causa della struttura dei derivati il Governo ha sborsato nel 2013 tre miliardi per pagamento di rate indicizzate, mentre nel 2012 sono stati pagati a Morgan Stanley in un’unica tranche 2,2 miliardi, in questo caso per un’opzione contrattuale come abbiamo già accennato. Tenuto conto che questi contratti prevedono dei pagamenti periodici, è altamente probabile che di quei 34,4 miliardi di perdita potenziale, almeno una parte potrebbe tramutarsi in perdita effettiva in pochi anni.

Il governo di Mario Monti (si ricordi che Monti è stato consulente di Goldman Sachs) in soli sei mesi, nel corso del suo governo, ristrutturò contratti per 30 miliardi di euro, consolidando 8,1 miliardi di perdite, sborsando “cash” quei 2,5 miliardi di euro a Morgan Stanley, dove lavora l’ex Ministro del Tesoro Domenico Siniscalco ed il figlio di Mario Draghi. Certo è veramente strano che Goldman Sachs abbia assunto Mario Draghi nei primi anni novanta; Morgan Stanley abbia cooptato l’ex Ministro del Tesoro Domenico Siniscalco; Credit Suisse abbia arruolato l’ex direttore e poi ministro Vittorio Grilli.

In una recente audizione alla Camera dei Deputati nell’ambito della “Indagine conoscitiva sui derivati”, la dottoressa Maria Cannata, responsabile del debito pubblico, ha confermato che il Ministero dell’Economia aveva un ammontare totale dei derivati sottoscritti dal Tesoro di 160 miliardi di euro; un mark to market negativo per 42 miliardi di euro, con una perdita del 30% ma che i parlamentari non avrebbero alcun diritto di accesso ai contratti.  Quello che sorprende in tutta questa vicenda è la reticenza del Tesoro nello spiegare ai cittadini l’origine dei 36.9 miliardi di euro di perdite contabili in derivati fin qui accumulate.

La dottoressa Cannata si è difesa dicendo che l’unico paese a fornire questi dati è la Danimarca. Non ha specificato quanti paesi, oltre alla Danimarca, fanno uso di derivati cosiddetti “over-the-counter”, ovvero derivati non trattati in Borsa e quindi per loro natura molti opachi nelle condizioni e nel prezzo. Nella sua relazione alla Commissione della Camera, la dottoressa Cannata inoltre ha fornito risposte così poco credibili da squalificare tutto lo staff del MEF che gestisce queste operazioni dicendo, per esempio, che il Tesoro ha difficoltà a fare il mark-to-market dei derivati in portafoglio a causa del fatto che il database a disposizione contiene «ben poche informazioni, praticamente il nozionale iniziale, le scadenze e poco altro».

Ma allora perché si sono assunti questi rischi non quantificabili? E come stanno facendo oggi a gestire questa bomba ad orologeria?

Ma quello che è grave – scrivono Andrea Buraschi e Luigi Zingales su “Il Sole 24 Ore” – è che la Cannata dice che non c’è bisogno di prezzare i derivati detenuti dal Tesoro ai valori di mercato, perché si tratta di evidenze puramente contabili, che saranno riassorbite quando i mercati si regolarizzeranno.

Ma allora perché  Morgan Stanley ha incassato  2.5 miliardi di euro?

Per completezza di informazione, però, va ricordato che la procura di Roma ha riconosciuto recentemente che la clausola di estinzione anticipata «era stata in origine legittimamente apposta» ed è stata «legittimamente esercitata da Morgan Stanley nell’ambito delle sue facoltà contrattuali», chiedendo al Tribunale dei ministri l’archiviazione della posizione di Mario Monti, premier all’epoca dei fatti ed anche invitando il GIP, giudice delle indagini preliminari, ad archiviare la richiesta di indagini su Maria Cannata per manipolazione del mercato, truffa ed abuso di ufficio.

La verità è che questi contratti danno alle controparti la possibilità di incassare anticipatamente il valore del derivato. Queste opzioni trasformano immediatamente una perdita contabile in un esborso di cassa, come già accaduto nel 2011. E poiché la Cannata ha dichiarato che ci sono in essere 13 contratti di questo tipo, sarebbe opportuno conoscere quanti di questi contratti danno alla controparte l’opzione di risoluzione anticipata, in caso di abbassamento del rating dell’Italia? E quanti di quelle perdite contabili di  36.9 miliardi potrebbero trasformarsi in esborsi di cassa?

Eppure il Ministro Padoan ha anche il coraggio di far dichiarare al suo portavoce che i derivati dello Stato italiano erano stati sottoscritti a scopo prudenziale, come si fa per assicurare un’auto contro i rischi di furto ed incendio!!! … e che il diniego all’accesso agli atti opposto dal MEF era giustificato per evitare “possibili giochetti degli speculatori”. In pratica il nostro Ministro dell’Economia ha messo il “segreto di Stato” sui derivati “in pancia” allo Stato italiano.

Ma mi faccia il piacere, Signor Ministro… Lo Stato italiano rischia e le banche d’investimento, tanto generose nell’assumere ex funzionari del Tesoro, fanno affari e si arricchiscono.

Ultima notizia: a fine 2014 il Tesoro possedeva un portafoglio di derivati pari all’8,95°% del totale di titoli di Stato in circolazione. Il nozionale è di 159,5 miliardi con un mark-to-market negativo di 42 miliardi. Alla faccia…  Eppur nonostante abbia riconosciuto che la banca di affari detenga partecipazioni nella società di rating S & P, il nostro sottosegretario al MEF, Pier Paolo Baretta ha dichiarato, rispondendo ad una interrogazione del capogruppo di F.I. Renato Brunetta, che non c’era nessun legame tra quella bocciatura e la risoluzione di quel contratto capestro.

Hanno perciò veramente fatto bene quei parlamentari che hanno richiesto l’istituzione di una commissione di inchiesta per indagare sui fatti dell’estate-autunno del 2011. Tra questi Renato Brunetta, capogruppo alla Camera di Forza Italia,  al quale è stato dato il «pieno sostegno di Fratelli d’Italia per accertare le cause della rimozione dell’ultimo Esecutivo eletto dagli italiani (quello di Berlusconi) e del commissariamento dell’Italia con governi al servizio delle cancellerie europee e delle lobby economico-finanziarie».

C’è da tener presente, però, ad onor del vero, come scrive Claudio Gatti, il brillante giornalista del  “Il Sole 24 Ore”, che in tutti i ragionamenti sviluppati dalla Procura di Trani non è stato tenuto conto che un mese prima del declassamento iniziale dell’Italia (per la precisione il 5 agosto di quell’anno), S & P annunciò un declassamento ben più pesante: a) quello del debito sovrano degli Stati Uniti, che per la prima volta dal 1941 perdevano così la tripla A; b) che nel gennaio 2012, assieme a quello italiano, S & P declassò il debito sovrano di altri otto Paesi europei facendo tra l’altro perdere la tripla A anche a Francia e Austria e portando il Portogallo sull’orlo del default con un BB-; c) il 20 novembre 2001, tra l’altro, S & P declassò la stessa Morgan Stanley, assieme ad altre 14 grandi banche americane.

Insomma – scrive Gatti – si era nel pieno di un ciclo di rigore dopo le rivelazioni sull’“indulgenza” dimostrata nelle valutazioni dei pacchetti di mutui tossici, che crearono la più grande crisi finanziaria che si ricordi.

La Procura di Trani, inoltre, ritiene una prova “tecnica” del suo teorema giudiziario la pubblica denuncia di Monti (e di altri politici o economisti italiani). Ma ignora – continua il giornalista de “Il Sole 24 Ore” – che di fronte agli analoghi declassamenti, i politici di tutti gli altri Paesi reagirono nello stesso modo per  l’“iniquità” della bocciatura.

 Una ulteriore questione controversa, infine, è quella del presunto conflitto d’interesse tra S & P e Morgan Stanley per la quota che Morgan Stanley aveva in McGraw Hill Financial. Effettivamente una quota di circa il 2,75 era all’epoca attribuita a Morgan Stanley, ma, innanzitutto, non si trattava della banca, cioè di Morgan Stanley & Co. International Plc, bensì di MSIM – Morgan Stanley Investment Management, cioè della società di gestione che opera in modo del tutto autonomo dalla banca. Non solo: quel 2,75% rappresentava la quota “aggregata”, in altre parole era il totale delle quote gestite da Msim di vari fondi (ben 5) che avevano partecipazioni frammentate e strategie diversificate, ciascuna delle quali difficilmente avrebbe potuto influenzare le società di rating.

E’ altrettanto vero che vari dossier redatti dalle commissioni americane hanno accertato il ruolo nefasto delle agenzie di rating nel favorire la crisi finanziaria globale più devastante della storia. Ad esempio nel rapporto del 2011 della bipartisan Financial Crisis Inquiry Commission di Phil Angelides, al termine di centinaia di pagine piene di dettagli comprovanti le varie responsabilità, dice: «Sosteniamo che i comportamenti fallimentari delle agenzie di rating siano stati le componenti essenziali nel meccanismo della distruzione finanziaria. Le tre agenzie sono state gli attori chiave del meltdown finanziario».

Ed anche la commissione d’indagine del senato americano, guidata da Carl Levin e Tom Coburn, nel rapporto «Wall Street and the Financial Crisis: The Role of Credit Rating Agencies» del 2010 scriveva: «La commissione ha provato che le suddette agenzie di rating hanno permesso a Wall Street di influenzare le loro analisi, la loro indipendenza, la loro reputazione e la loro credibilità. E lo hanno fatto per soldi. Esse hanno operato con un inerente conflitto di interesse in quanto venivano pagate dagli stessi istituti che emettevano i titoli a cui loro davano il rating».

Da tutta questa “storiaccia”, che abbiamo cercato di ricostruire, emerge, da un canto, una responsabilità delle società di rating in genere, per la quale bene fanno i magistrati ad indagare, dall’altro, la avventatezza, il pressapochismo, l’incompetenza, forse la malafede dei vari esponenti (politici e dirigenti) del governo italiano e del MEF nell’aver stipulato contratti, i cui rischi quantomeno erano sconosciuti e non quantificabili, e nell’aver utilizzato strumenti finanziari opachi, UTC (fuori da ogni contabilità ufficiale) gestiti prevalentemente dalla speculazione internazionale, la cui quantificazione è ancora poco nota tanto che il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta, e i deputati della Commissione Bilancio di Montecitorio Rocco Palese, Giuseppe Galati, Cosimo Latronico, Lorena Milanato e Stefania Prestigiacomo, hanno inviato al direttore generale del Tesoro presso il Ministero dell’Economia e delle finanze, Vincenzo La Via, una richiesta formale per poter prendere visione ed estrarre copia di tutti i contratti derivati sottoscritti dalla Repubblica italiana dagli anni novanta fino ad oggi. Una richiesta che ad oggi non ci risulta sia stata ancora soddisfatta.

Nota1)  Llyod Blanfein, presidente e ceo di Goldman Sachs ha portato a casa 24 milioni di dollari. James Dimon, leader di J.P.Morgan, 20 milioni. John Stumpf, di Wells Fargo, 19,3 milioni. Michael Corbat, Citigroup, e Brian Moynihan, Bank of America, 13 milioni ciascuno. Come si vede la grande crisi seguita al fallimento di una di queste finanziarie, la Lehman Brothers, non ha insegnato e cambiato nulla. Eppure la logica dei bonus legata ai risultati di breve termine era stata una delle cause delle bolle speculative.

*www.riccardopedrizzi.it # info@riccardopedrizzi.it  Parlamentare dalla XII alla XIV Legislatura, come Deputato e nella XV come Senatore, con incarico di Presidente della COMMISSIONE FINANZE e TESORO a Palazzo Montecitorio e di Segretario presso Palazzo Madama. Presidente dell’ UCID – Lazio, giornalista, saggista, autore di numerosi testi e direttore di importanti periodici… più volte è già stato presente, come importante e gradito ospite, con vari interventi sulla nostra testata.


Riccardo Pedrizzi

Giornalista, saggista, autore di numerosi testi e direttore di importanti periodici.