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Conferenza Nazionale dell’Avvocatura

 

 “Ordinamento Professionale”

  A cura degli avvocati PAOLO BOGONI e BARBARA LORENZI  (*) Napoli 16-17-18 gennaio 2014  

L’attuale legge professionale 247/2012, voluta non senza dubbi e perplessità dal Congresso Nazionale di Bari, mostra già molte criticità.  Così a posteriori un numero crescente di componenti dell’avvocatura si sono resi  conto della inadeguatezza di un testo spesso superato dalla realtà socioeconomica, che chiede oggi un’avvocatura per molti aspetti diversa da quella su cui e per cui la legge è stata disegnata. Purtroppo però intanto il quadro politico è molto cambiato rispetto a quello che ci si poteva aspettare quindici mesi fa, e, contrariamente a quanto immaginava possibile il deliberato congressuale, oggi non ci sono i presupposti politici o maggioranze parlamentari per procedere nell’ immediato a modifiche della legge. Sarebbe quindi dispersivo, illusorio e velleitario chiedere a un’avvocatura già molto provata mobilitazioni o iniziative per ottenere modifiche di livello legislativo politicamente impraticabili prima di una prossima legislatura, cioè da due a quattro anni.

Occorre quindi lavorare su e con quello che c’è, cercando di intervenire in maniera intelligentemente evolutiva sul testo vigente, al fine di riallineare maggiormente l’avvocatura con il resto della società, consentendo un rilancio della categoria. Si può per esempio intervenire suggerendo ed indicando ai soggetti (Ministero e CNF) cui la legge ha affidato delle potestà regolamentari per lo più ancora da esercitare, di guardare nell’ esercitarle a un modello di avvocatura nuovo, che deve evolversi, riposizionarsi sul mercato e accedere a nuovi mercati e possibilità di creare reddito, anche e soprattutto fuori dal processo statale. Sotto questo profilo appare necessario riorganizzare gli studi professionali favorendo l’accorpamento degli studi individuali e promuovendo l’esercizio collettivo della professione. Non vi è alcuna possibilità di contrastare le incursioni e le erosioni di altri soggetti sul mercato dei servizi legali, né di diminuire l’eccesso di concorrenza al ribasso che viene spesso semplicisticamente attribuito al numero degli iscritti all’albo, indicano la soluzione, altrettanto semplicistica, della loro decimazione.

Ma se il problema principe dell’Avvocatura oggi è il suo impoverimento, ciò non è ripartito né equamente, né egualmente. Assistiamo invece a una sempre maggiore divaricazione tra redditi bassissimi di una stragrande maggioranza (al limite, e talvolta sotto, la soglia di sopravvivenza) e redditi elevati (superiori ai 100.000 euro) di pochi o pochissimi avvocati: insomma siamo di fronte a una bipartizione della categoria professionale tra contadini e baroni. Impoverimento e divaricazione non si devono solo alla crisi economica o alla scelta governativa di sottoporre i professionisti a varie forme di vessazioni fiscali, ma soprattutto a un elemento strutturale, dovuto al fatto che gli studi legali italiani, orientati nella gran parte come “artigiani del processo”, non sono attrezzati per affrontare l’attuale mercato unico dei servizi legali, ormai realtà tangibile e concreta anche in periferia, patendo così da un lato la concorrenza esterna dei grandi studi stranieri, delle società di consulenza, di recuperò crediti, di infortunistica, e dall’ altro quella interna delle nuove leve che hanno ingrossato gli albi grazie a un accesso incontrollato e tutt’ altro che professionalizzante. Assistiamo all’ asimmetria di un’avvocatura massicciamente presente sul territorio nazionale, ma polverizzata in studi individuali che non riescono ad essere competitivi a fronte a una sempre più frequente richiesta di mercato di prestazioni intellettuali seriali o di massa, ovvero selettive ma multidisciplinari e interprofessionali.

Per cercare di uscire da tale marginalizzazione e declino reddituale si può, da un lato, modificare la morfologia degli studi stimolando la loro aggregazione, rendendo possibili una pluralità di modelli societari, anche multidisciplinari e interprofessionali, o instaurare pure stabili collaborazioni con le altre professioni anche sotto altre forme (ATI, ad esempio); dall’altro, cercare di trovare spazi oltre il Processo statale, che è il recinto nel quale siamo rinchiusi, e il cui collasso ci collassa. Infatti un altro fattore dell’impoverimento dell’avvocatura è il disordine dei flussi di cassa, la cui tempistica dipende da quella del procedimento giudiziale, su cui non esercitiamo alcun controllo. I tempi abnormi ed imprevedibili del processo sono infatti del tutto inidonei a garantire allo studio legale un flusso di cassa che ne copra i costi e ne assicuri il funzionamento senza il periodico ricorso a riserve o credito bancario, rendendo perennemente precario il reddito dell’avvocato.

Cosi spesso accade che l’incasso del compenso avvenga soltanto a conclusione del giudizio e pure con una certa difficoltà, visto che il cliente raramente è soddisfatto, anche in caso di esito positivo della causa, quando l’esito arriva distanza di molti anni rispetto alla presentazione della domanda di giustizia. La inefficienza della giustizia italiana non solo non soddisfa gli utenti del servizio, ossia i nostri clienti, ma rappresenta un danno anche per noi avvocati.

Ovviamente una legge o un regolamento professionale non riempiono le tasche degli avvocati, ma la premessa socioeconomica, in chiave di analisi economica del diritto, serve a orientare le scelte normative verso una efficacia più concreta. In altre parole la domanda giusta è: come possiamo adattare il nostro ordinamento per uscirne, e non essere più i vasi di coccio del sistema giustizia? Per questo dobbiamo partire non da ciò che abbiamo sempre conosciuto, ma dobbiamo domandarci quale ruolo dobbiamo o possiamo avere nella società, e vestirlo della disciplina più funzionale per assolverlo.

Tradizionalmente l’avvocato italiano è formato per fare il difensore tecnico nel processo statale, e la sua disciplina professionale è un abito tagliato per quella funzione, oggettivamente in declino. La società però reclama anche tutela altrove, e questo spazio, o noi ci organizziamo per coprirlo o viene occupato da altri. Purtroppo alcune regole o letture, concepite per un mondo inattuale, ci svantaggiano e dobbiamo adattarle ai tempi o rassegnarci alla marginalità.

Va considerato che il cliente si rivolge all’avvocato per un suo problema; se l’avvocatura riesce ad interpretare il proprio nuovo ruolo sociale che è il problem solving, cercherà di risolvere il problema del cliente nel migliore dei modi ma soprattutto nel minor tempo possibile; soddisfatto l’interesse del cliente, si può chiudere la pratica e incassare la parcella. Più velocemente si chiudono le pratiche più velocemente si possono chiedere i pagamenti dei compensi.

È evidente che per chiudere velocemente una pratica non ci si può rivolgere alla giurisdizione statale che non funziona notoriamente, allora noi per primi dobbiamo cercare soluzioni alternative al processo attraverso negoziati (con necessità per l’avvocato di specializzarsi nelle relative tecniche) o altri ADR, o processi alternativi a quello statale, come gli arbitrati amministrati.

Le camere arbitrali presso gli ordini professionali potrebbero essere una buona soluzione al fine di garantire un servizio efficiente, con colleghi in funzione di arbitri qualificati e preparati, e a costi omogenei sull’intero territorio.

Tutto questo implica un cambio di passo coraggioso, un cambio di mentalità, una nuova Weltanschauung. Il cambio di mentalità ci consentirà di trasformare le difficoltà, gli handicap in opportunità.

Ad esempio, l’art. 21 della nostra legge professionale, che suscita ansie e polemiche, va visto nella sua reale dimensione: è un problema perché i redditi degli avvocati sono così bassi da non consentire a molti di pagare i contributi a Cassa Forense. Quindi la soluzione è mettere in condizione gli avvocati di guadagnare di più e poter pagare i contributi; e non sarà una legge a consentirci questo, ma noi dovremo reinventare modalità e spazi più ampi per la professione.

Il regolamento, però, dovrebbe prestare particolare attenzione al fatto che oggi la curva caratteristica dei redditi non è quella di dieci o vent’anni fa e tener conto della polarizzazione dei redditi: in altre parole bisogna trovare un equilibrio che assicuri una sostenibilità nei due sensi, verso l’assistito e verso la Cassa.

Cassa Forense inoltre dovrebbe essere ripensata per accompagnare l’avvocatura nel necessario cambio di passo: per esempio prestandosi come leva finanziaria nella promozione dell’aggregazione degli studi, o garantendo il fondo rotativo per l’anticipo delle parcelle delle difese d’ufficio, come già avviene in Francia, oppure garantendo le obbligazioni che le Srl professionali potrebbero emettere per autofinanziarsi.

Alcuni vulnera, invece, possono essere sanati con un maggior ricorso a strumenti convenzionali.

Potremmo superare il problema delle tariffe-parametri, sfilandolo di mano ai giudici e al nostro debitore principale per gli incarichi officiosi (ossia il Ministero), negoziando col cliente tutti gli elementi principali del nostro incarico professionale, per esempio con un contratto scritto uniforme, nel quale inseriremo anche la prova documentale dell’avvenuta informativa al cliente che varie leggi ci impongono (privacy, antiriciclaggio, numero polizza assicurativa professionale, eccetera); ma inseriremo anche il prezzo della prestazione e la tempistica dei pagamenti, al fine di sottrarre al cliente l’alibi di contestazioni strumentali a posteriori. E magari pure la clausola arbitrale, per evitare di demandare alla giurisdizione statale, inefficace e inefficiente, le nostre personali controversie.

Si potrebbe anche valutare, in un’altra ottica, di utilizzare il modello della contrattazione collettiva col Ministero, esattamente come accade per i medici di base convenzionati, al fine di avere una convenzione tariffaria che nessun giudice possa mai sindacare.

E ancora: potremmo superare l’annoso problema della remunerazione dei tirocinanti e dei collaboratori di studio, prevedendo un contratto tipo di collaborazione che tenga conto del diverso apporto e delle diverse responsabilità che ciascun professionista assume all’interno di un studio. Non si può infatti non prendere atto che all’interno dello studio legale ci sono professionisti titolari, professionisti collaboratori e professionisti tirocinanti. A tale proposito si è elaborato una bozza di contratto tipo di collaborazione su cui iniziare a ragionare.

È infatti evidente che tutta questa contrattazione standardizzata dei rapporti dell’avvocato con il cliente, con i collaboratori, e anche con altre realtà professionali si rende ancora più necessaria alla luce di una strutturazione più articolata dello studio legale, che da individuale-artigianale diventi societario e aggregato. Per altre cose occorre procedere a interpretazione intelligente e intelligente uso della potestà regolamentare.

In tema di società professionali, già la IV conferenza nazionale, tenutasi a Napoli nel 2005, affermò la opportunità di:

A) dotare l’avvocatura di più modelli di esercizio della professione, anche in forma associata o di società di capitale, purché esclusivamente tra professionisti;

B) prevedere delle forme temporanee, quali ATI e associazione in partecipazione, che rispondano o all’esigenza di un singolo complesso mandato con valenza interdisciplinare o a rapporti di Collaborazione tra studi e singoli professionisti o tra studi, in relazione a singole prestazioni o a stabili rapporti sul territorio;

C) la dimensione collettiva può essere anche multidisciplinare ed interprofessionale;

D) l’esercizio collettivo della professione non può essere ingessato nel modello unico delle STP di cui al decreto legislativo 96/2001, rivelatosi da subito incapace di rispondere alle molteplicità delle esigenze organizzative della professione.

Finalmente la legge 183/2011 sulle professioni intellettuali ha previsto all’ articolo 10 la possibilità di adottare qualsiasi modello societario previsto dal codice civile quando si costituiscano società tra professionisti; l’unico neo della norma riguarda la presenza del socio non professionista, sebbene in misura minoritaria pari a un terzo dei soci e del capitale sociale. Il regolamento attuativo di cui al D.M. 34/2013 porta molti principi che sono stati suggeriti proprio dall’ avvocatura.

La legge 247/2012 prevedeva sia la possibilità di associazioni professionali tra avvocati e altri professionisti (articolo 4), sia, in via derogatoria e speciale rispetto alla disciplina generale dei professionisti, la possibilità di costituire società, anche di capitale, tra avvocati (articolo 5) secondo una disciplina delegata al Governo, da esercitarsi entro 6 mesi dall’ entrata in vigore della legge. La delega contenuta nell’ articolo 5 non è stata (deliberatamente) esercitata dal Governo ed è quindi venuta meno. Se si volesse nuovamente sottoporre gli avvocati a una disciplina diversa da quella degli altri professionisti la parola toccherebbe al Parlamento. Nelle more si dovrà però applicare la disciplina generale delle società professionali, ossia la legge numero 138/2011 sulle professioni intellettuali ed il connesso regolamento di cui al decreto ministeriale 34/2013. La possibilità per gli avvocati di costituire società professionali anche con altri professionisti non è vietata da alcuna norma vigente e risponde all’ esigenza di fornire un miglior servizio al cliente che richiede sempre più spesso prestazioni e competenze multidisciplinari.

D’altro canto consideriamo che è possibile, secondo l’articolo 4 della nostra legge professionale, l’associazione tra avvocati altri professionisti. Non si comprende quindi perché l’avvocato potrebbe costituire associazioni con altri professionisti ma non potrebbe costituire società di capitali con altri professionisti. La disparità di trattamento sarebbe assolutamente ingiustificata. Inoltre la delega di quell’ articolo 5 non prevedeva alcuna esclusiva, alcun divieto di costituire per gli avvocati delle società di capitali con altri professionisti. Prevedeva semplicemente che qualora i soci della società di capitali fossero tutti avvocati, tale società sarebbe stata disciplinata da tutti i principi elencati nell’ articolo 5. Senza contare poi che una diversa interpretazione, estremamente restrittiva, che costringesse gli avvocati a rimanere nel recinto angusto di una legge professionale forense che oltretutto piace poco, di fatto non risolverebbe il problema del gravissimo pregiudizio che il vuoto normativo arrecherebbe a noi avvocati, impedendoci di fatto e nella sostanza, nonostante l’astratta previsione normativa, di esercitare la nostra attività professionale in forma collettiva, anche traverso lo strumento delle società di capitali. La pluralità dei modelli di esercizio politico della professione rappresenta un importante traguardo conquistato con fatica dall’avvocatura, e non possiamo permetterci, anche alla luce dell’impoverimento progressivo della Avvocatura, di precluderci la possibilità di ampliare le modalità e le strutture attraverso cui esercitiamo la professione forense al fine di essere competitivi sul mercato e avere una tenuta di fronte alla concorrenza sia dei grandi studi stranieri sia delle altre professioni sia ancora di soggetti non professionisti che offrono servizi legali a costi estremamente contenuti per il cliente  

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DOCUMENTO FINALE DI SINTESI

Il Gruppo di lavoro, istituito in occasione della VII Conferenza Nazionale dell’Avvocatura sul tema dell’Ordinamento Professionale, richiamata l’analisi compiuta nel documento introduttivo predisposto dai Coordinatori del Gruppo (che precede), ha enucleato le seguenti osservazioni, criticità e richieste di intervento.

Andranno predisposte e veicolate presso le opportune sedi istituzionali le modifiche alla Legge Professionale, di cui alla mozione presentata dall’AIGA e votata dal Congresso di Bari, affermando nel contempo il ruolo dell’ OUA di organismo esecutivo delle volontà congressuali. Sarà necessario prevedere una modifica del sistema previdenziale che consenta il pagamento in forma ridotta dei contributi soggettivi nei primi anni dell’attività professionale, con eliminazione, per quel periodo, del contributo soggettivo fisso; al contempo va propugnato un nuovo ruolo di Cassa Forense, più dinamico ed attento a valorizzare la propria leva finanziaria, mettendola al servizio degli avvocati ancora in attività: istituzione di fondi rotativi, costituzione di fondi finalizzati alla erogazione di prestiti ai più giovani, politiche di promozione anche attraverso forme di finanziamento e di concerto con le altre rappresentanze dell’avvocatura delle aggregazioni professionali, contrattazione e/o creazione di polizze generali per la r.c. professionale e degli studi, stipulate da Cassa Forense come unico contraente e destinate ad ogni singolo iscritto (sulla scorta di quanto avviene già con la polizza sanitaria).

Va regolamentato l’istituto della “negoziazione assistita”, quale metodo rapido e qualificato di soluzione dei conflitti, chiedendo al Legislatore l’introduzione di specifici incentivi, anche fiscali, tali da rendere l’avvocato “attore in una giustizia senza processo”. L’accesso alla professione deve essere preceduto da una profonda riforma del sistema universitario, che preveda la specializzazione in professione forense, che tenga conto anche di una programmazione degli spazi di mercato, non escludendosi, se del caso, anche il ricorso al numero chiuso.

Va chiesta l’introduzione di specifici strumenti per l’esercizio dell’attività professionale in forma aggregata (associativa o societaria), anche multidisciplinare, in grado di garantire l’autonomia e l’indipendenza degli avvocati che ne fanno parte; va rilanciata la discussione nell’Avvocatura, alla luce di queste indicazioni, in ordine alla possibilità di una eventuale maggiore apertura verso la presenza di soci di capitale minimo, purché nei limiti che consentano di rispettare i principi sopraenunciati: autonomia ed indipendenza dell’avvocato socio.

Vanno infine ridiscussi i criteri per l’individuazione degli elementi integranti il requisito della continuità professionale, che, fermo restando il possesso obbligatorio della partita iva, non limitino nei fatti  l’esercizio dell’attività professionale ai ceti più abbienti.

Si auspica comunque una rivisitazione dell’intero istituto del sistema delle incompatibilità.

(*) Un precedente interessante intervento dell’ Avv. Barbara Lorenzi  (LE SOCIETA’ tra PROFESSIONISTI) è visionabile nella sezione “Consulenze Professionali”