Approfondimenti sul P.I.L.
Riflessioni sul Pil:
La Ricchezza di un Paese è solo una questione di somme ?
“… 25) Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26) Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27) E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28) E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29) Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30) Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31) Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32) Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33) Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34) Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena … “ ( Matteo 6,25-34, Vangelo)
Il PIL è solo una somma ?
Nel suo interessante libro “I limiti della scienza economica”, Paul Ormerod [i], cosi riassume le sue osservazioni: “Di punto in bianco [nel 1980] la dimensione dell’economia, il Pil, aumentò del 20% … L’economia italiana restava esattamente tale e quale al giorno prima. L’unica cosa che era cambiata era la contabilità nazionale …”. A noi piace citare il passo di Ormerod, perché sintetizza con schiettezza il paradosso (ovvero, secondo la definizione che ne dà Mark Sainsbury, “una conclusione apparentemente inaccettabile, che deriva da premesse apparentemente accettabili per mezzo di un ragionamento apparentemente accettabile“), che tanta letteratura economica ha raccolto con riferimento al Pil.
Ma andiamo con calma e fissiamo gli obbiettivi della nostra analisi ritornando alla domanda a cui cercheremo di dare una risposta, ovvero: il Pil costituisce o meno un valido indicatore dello standard di vita del Paese per cui è calcolato e, soprattutto, confrontando il Pil di un Paese con quello di un altro, possiamo concludere che ad una crescita maggiore corrisponda una maggior ricchezza per i cittadini ? Prima della crisi, quando lo sviluppo degli U.S.A. (secondo le misurazioni standard del Pil) appariva più consistente rispetto all’Europa, molti europei sostenevano che si dovesse adottare il capitalismo di stampo statunitense, anche attraverso una maggior deregolamentazione, in particolare nel settore bancario. Chi si fosse presa la briga di esaminare il crescente indebitamento delle famiglie americane avrebbe probabilmente rettificato la falsa impressione di successo trasmessa dalle statistiche sul Pil.
Forse questo esempio può aiutarci più di mille parole a comprendere innanzi tutto di cosa stiamo parlando e quindi, comprendere con esattezza le informazioni che tale misura può fornirci. Senza il necessario approfondimento, infatti, non si comprende la ragione delle tante discussioni in essere sulla adeguatezza o meno del Pil ad esprimere la c.d. ricchezza delle nazioni. Ed in effetti la letteratura economica intorno al Reddito Nazionale è piena di paradossi[ii]. Si prendano ad esempio i c.d. costi del declino sociale, come il “crimine” ed i disastri naturali che, in quanto generano transazioni monetarie positive, vengono contabilizzati nel Pil come guadagni economici addirittura tra le voci in aumento. Capiamoci meglio: il crimine accresce negli USA il Pil di diversi miliardi di fatturato in quanto si traduce in spese utilizzate per le misure di sicurezza, la protezione del territorio, la detenzione, il risarcimento danni, le spese mediche ed i funerali. E’ intuitivo a tutti, comunque, che tali spese da un punto di vista non strettamente economico hanno ripercussioni negative sullo stato emotivo, psicologico e fisico degli individui e che queste cose non possono essere considerate indice di benessere di un Paese ! Ma i paradossi non finiscono qui. L’esaurimento delle risorse naturali (petrolio, legname, ecc. …) al contrario del capitale fisso (la cui svalutazione nel tempo, come vedremo in seguito, viene considerata nel Pil) non viene contabilizzato e le c.d. esternalità negative come l’inquinamento danno luogo ad un duplice effetto: da un lato non vengono contabilizzati né come mali in sé, né come perdite di benessere; dall’altro il costo del disinquinamento va ad aumentare il Pil[iii]. Ma, approfondendo, si scoprono ancora altri problemi come sul confronto dei miglioramenti in fatto di qualità: il Pil non registra se siano state prodotte automobili migliori, ma solo il numero maggiore di automobili; pertanto anche la produzione di migliaia di automobili difettose aumenta il Pil. L’assistenza sanitaria esemplifica forse molto bene questo problema. Gli Stati Uniti spendono più di qualsiasi altro Paese per l’assistenza sanitaria (sia pro-capite, sia in percentuale rispetto agli utili), ma con risultati decisamente inferiori e con la conseguenza che forse almeno una parte della differenza tra il Pil pro-capite negli Stati Uniti e nei Paesi europei potrebbe derivare dalle modalità di misurazione adottate.
Insomma, bisogna inoltre tener conto che il Pil fornisce misure qualitative di fenomeni essenzialmente qualitativi, come l’innovazione tecnologica: un Pil costante, ad esempio, non significa necessariamente che l’economia sia ferma, ma potrebbe al contrario indicare che essa stia progredendo. Ad esempio, la spesa per l’acquisto di computer può essere inferiore oggi rispetto a 10 anni fa; eppure i PC odierni sono molto più veloci e potenti. Un altro esempio ancora può essere dato dai TV color: quando questi sono stati introdotti, la produzione delle TV in bianco e nero è terminata, e non è detto che raggiunto un buon livello di produzione la TV a colori costi di più (al netto dell’inflazione) di quanto costasse quella in bianco e nero.
Secondo molti, le considerazioni sul Pil sono così complesse e difficili in quanto coinvolgono il modello di sviluppo che vogliamo per un Paese e riguardano quindi ciò che si considera come progresso. Ma, è proprio il caso di ricordarlo, il concetto di sviluppo e di progresso non ha avuto (e non ha tutt’ora) un significato univoco e si intreccia con l’idea (personale e soggettiva) del fine ultimo dell’uomo e della civiltà . Se torniamo indietro nella storia per riscoprire nel corso del tempo come il concetto di sviluppo è stato interpretato, troviamo un infinità di modi diversi e soggettivi, legati alla civiltà che lo sviluppa. Nella cultura Occidentale, in particolare, esso è stato di volta in volta identificato con il progresso, con la crescita, con la modernizzazione ed anche con l’industrializzazione. Se infatti, nell’antichità classica, per sviluppo si è inteso principalmente riferirsi in termini progresso spirituale[iv], con pochissima (se non nessuna) attenzione al miglioramento delle condizioni materiali della società, con il mercantilismo (metà del XVII sec.) ed ancor prima in epoca rinascimentale, si matura la convinzione che il progresso materiale determini anche lo sviluppo dell’uomo concepito come fine per l’affermazione della potenza militare di uno Stato e quindi della sua egemonia territoriale. Ma è con il Calvinismo e la riforma protestante che si ha poi un nuovo approccio allo sviluppo, dove vi è intima correlazione tra fede, produzione e ricchezza, secondo cui la crescita economica segue il volere divino. Con la cultura illuminista (XVIII sec.), invece, viene ad esaltarsi il ruolo dell’uomo e della concezione dello sviluppo inteso come modernizzazione, ovvero, ineluttabile evoluzione delle attività umane anche come dominio della natura. Solo negli ultimi anni si è fatta strada una nuova concezione dello sviluppo, non più centrata sulle sole condizioni materiali, ma anche sugli aspetti qualitativi della vita relazionale. Robert Kennedy, nel suo famoso discorso del 18 Marzo del 1968 all’Università del Kansas, ebbe a pronunciare le celebri parole che sintetizzano con appropriatezza la questione: “… Non troveremo mai un fine per la nazione, né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, nè i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani …”.
Le misure economiche hanno rispecchiato nel tempo l’idea che si aveva dello sviluppo; così si considera che la prima misura della ricchezza di un paese fosse legata alla ricchezza del suo Re, accresciuta poi per economie prevalentemente agricole dalla terra e dalla sua produzione, mentre nei paesi più industrializzati si aggiunse alla precedente anche l’apporto della manifattura. Nel tempo le misure dello sviluppo sono divenute le misure della produzione, non più in quanto tale, ma in quanto scambiabile sul mercato e “dotata” di un prezzo. Dal dopoguerra ad oggi, la misura con cui si considera lo sviluppo di un paese è, come detto, il Pil, ma l’idea di sviluppo e della “nuova frontiera” dei Kennedy, fa nascere l’esigenza di nuovi indicatori economici che possano formalizzare e confermare empiricamente i nuovi pensieri. E come poter dare torto alla confusione che genera il Pil. L’evidenza empirica sembra dimostrare che l’incremento del Pil moltiplica i rischi ed i costi associati al degrado ambientale, l’aumento delle disuguaglianze sociali, la disgregazione sociale generando nuove problematiche che parrebbero minacciare i progressi fatti in termini di aspettativa di vita tanto da mettere a repentaglio il futuro della società. D’altra parte, a partire da quel discorso, l’idea che il Pil non significhi più un granché ha raggiunto tanti; basta ricordare da ultimo[v], la conferenza internazionale “Beyond GDP”(oltre il PIL) organizzata dalla Commissione europea, il Parlamento Europeo, l’OCSE ed il WWF[vi].
Ma entriamo un po’ nel dettaglio. Il prodotto interno lordo (Pil o, in inglese, Gross Domestic Product) costituisce la misura della produzione che viene utilizzata nel SEC (Sistema europeo di conti) adottato nei conti nazionali della UE e quindi dell’Italia. Esso misura il prodotto effettuato sul territorio del paese utilizzando fattori di produzione di proprietà di residenti e non residenti. In molti paesi al di fuori della UE, fra cui gli Stati Uniti, l’aggregato a cui si fa riferimento è il prodotto nazionale lordo (Pnl), il quale misura il prodotto effettuato dai residenti nazionali sia all’interno del paese che all’estero. Tuttavia, è possibile passare dal Pil al Pnl semplicemente aggiungendovi i redditi netti dall’estero, cioè i redditi da lavoro e da capitale percepiti all’estero dai residenti al netto degli analoghi redditi percepiti all’interno dai non residenti.
Ma torniamo al nostro Pil. Ideato negli anni ’30 quale indicatore nato per misurare la produzione e l’efficienza di mercato, il Pil si è trasformato via via in un parametro standard usato dai responsabili politici di tutto il mondo ed ampiamente citato nei dibattiti pubblici per palesare il successo o l’insuccesso delle politiche adottate fino a divenire il parametro più largamente diffuso per la misurazione di una economia. Esso in realtà esprime soltanto il valore aggiunto (o il reddito o, la spesa) di tutte le attività economiche basate sul denaro o, in altri termini, esso condensa in un solo numero (espresso nella valuta corrente) il valore di tutti i beni e servizi prodotti dell’economia in un dato periodo di tempo, solitamente l’anno solare. Spieghiamoci con un esempio, forse più utile di tante parole, per capire di cosa sto parlando. Supponiamo che l’economia di un Paese sia composta da due sole imprese: una produce acciaio e l’altra automobili. La prima vende acciaio per un valore di 100 alla seconda, che lo usa, insieme a lavoro e macchinari (fattori produttivi), per produrre automobili. Il guadagno derivante dalla vendita delle automobili ammonta a 210. Cos’è, allora, il Pil di quest’economia? Bene, ve lo suggeriamo noi: 210, ovvero, il valore della produzione finale cioè delle automobili e dal conto, naturalmente, non abbiamo tenuto conto dell’acciaio perché usato nella produzione del bene finale: non vogliamo, ad esempio, includere nel Pil il prezzo totale di un’automobile e considerare come parte del Pil l’acciaio (e diverse parti dell’automobile vendute al produttore, ad esempio i pneumatici) che costituisce un bene intermedio il cui valore è già incluso nel Pil.
Come abbiamo visto, il Pil misura il valore di tutti i beni e servizi finali prodotti nel sistema economico in un dato periodo di tempo (generalmente l’anno, anche se in molti Paesi tra cui l’Italia se ne fanno rilevazioni trimestrali). Le attività produttive di un Paese sono classificate generalmente in tre settori: il settore primario, comprende le attività di produzione delle risorse naturali, un settore secondario che comprende tutte le attività di carattere industriale e quello del terziario relativo alla produzione dei servizi. Ad esempio, in una semplice economia che produce venti banane, del valore di 0,10 euro ciascuna, e sessanta arance, del valore di 0,25 euro ciascuna, il Pil è pari a 17€[vii]. Se a fine anno rimangono invendute 10 banane e 20 arance, essere non formeranno oggetto della produzione per l’anno successivo, ma costituiscono scorte. Il Pil, quindi, misura il valore della produzione corrente ed esclude le transazioni di beni esistenti, come le arance e le banane invendute (o vecchi dipinti ed edifici di precedente costruzione) in quanto prodotti in precedenza e come tale, hanno già formato parte del Pil nell’anno di produzione.
Ma come pervenire ad un calcolo di ciò che un Paese produce in un anno? Bene, sono state suggerite tre diverse metodologie (che conducono, naturalmente, tutti al medesimo risultato). La prima si basa sul metodo del valore aggiunto ed il Pil in questo caso viene ottenuto sommando i valori dei beni e dei servizi prodotti dalle imprese, e come premesso, per eliminare tutte le duplicazioni che intervengono nella catena del valore di un bene, ad ogni stadio della produzione viene contabilizzato, come parte del Pil, solo il valore aggiunto al bene in questione in quello specifico stato della produzione (che può essere quindi definito come la differenza tra il ricavo ottenuto dalla vendita e la somma pagata per l’acquisto delle materie prime e dei semilavorati utilizzati nel processo produttivo). Un secondo criterio è invece il metodo dei redditi che lo calcola come somma delle retribuzioni e dei redditi da capitale. Un ultimo criterio, il metodo della spesa, ottiene il Pil con la somma dei consumi (spesa delle famiglie in beni durevoli, beni di consumo e servizi), degli investimenti (spesa delle imprese e delle famiglie in immobili) della spesa pubblica e delle esportazioni nette (differenza fra esportazioni ed importazioni). I tre metodi naturalmente conducono ad un risultato analogo. Infatti, partendo dal concetto di Pil, il valore della produzione nazionale si traduce nel reddito globalmente ricevuto dai percettori di salari, interessi, rendite e profitti e la spesa totale in beni e servizi del sistema economico è pari al valore della produzione; di conseguenza, la spesa totale dipende dal valore di tutti i redditi ricevuti. Sebbene queste tre relazioni appaiano semplici, nella contabilità nazionale la relazione tra Pil, reddito nazionale e spesa totale è molto più complessa. La complessità deriva in gran parte dal modo in cui le imposte dirette e indirette influiscono sul reddito nazionale, ma essa dipende anche dal ruolo del commercio internazionale. Cerchiamo di chiare tutto con un esempio, molte volte usato nei libri d’economia, supponendo che in un’economia esistano due sole imprese; la prima produce farina (mugnaio) per un valore complessivo di 50$, impiegando lavoro, al quale paga salari pari a $ 10 e la seconda (fornaio) produce pane per un valore pari a 100$, impiegando farina per un valore di 10$ e lavoro, al quale paga salari pari a 40$. Qual’ è il Pil di questa economia? Il valore complessivo della produzione (50+100=150$) comprende 10$=di farina che sono consumati nella produzione di pane; quindi non sono beni finali. Il Pil sarà dunque pari a: Pil =50+(100-10)=140$. Con il calcolo seguente abbiamo calcolato il Pil utilizzando il metodo del valore aggiunto. Nel nostro esempio il mugnaio non utilizza beni intermedi; quindi il valore netto della sua produzione coincide con il valore lordo: $ 50. Il fornaio, viceversa, impiega 10$ di farina; quindi il valore netto della sua produzione è pari 100-10=90$. Con il metodo del reddito, invece, si ragiona come segue: la differenza tra valore della produzione e valore dei beni intermedi in ogni impresa non può che andare a remunerare i lavoratori (salari), al pagamento di imposte indirette, a profitto dell’impresa (distribuito o meno agli azionisti). Nel nostro esempio non ci sono imposte indirette e quindi la differenza in questione non può che essere pari ai salari più i profitti: Pil = Reddito = Salari + Profitti = (10 + 40) + (40 + 50) = 140. Nel nostro esempio il reddito da lavoro rappresenta il 35,71% del PIL (50 / 140 · 100), mentre il reddito da capitale rappresenta il 64,29% (90 / 140·100). Nell’economia semplificata descritta sopra (quella con famiglie e due imprese, mugnaio e fornaio) abbiamo che la spesa per beni finali è costituita esclusivamente da spesa per consumi, pari a 40$ (spesa delle famiglie per la farina) +100$ (spesa delle famiglie per il pane). La spesa di 10$ per l’acquisto di farina da parte del mugnaio non rientra né tra le spese di consumo delle famiglie, né tra le spese di investimento del fornaio, in quanto la farina non costituisce un bene durevole ma è interamente utilizzata nella produzione di una anno. Con il metodo della spesa avremo quindi: Pil = 40 + 100 = 140. Detto altrimenti: poiché il Pil registra solo il valore dei beni e servizi finali e poiché questi ultimi sono, nel nostro esempio, solo beni di consumo, il valore della spesa non potrà che essere pari al valore dei beni di consumo.
Ma l’economia reale è un po’ più complessa e allora per avvicinarsi ad una sintesi più accettabile di quando accade in realtà complichiamo un pò il quadro. Nelle economie reali, ad esempio, la spesa non è costituita solo da quella per consumi delle famiglie (anche se essa fa la parte del leone ed in Italia supera il 60% del Pil, mentre negli USA è più vicina al 70%). Alla spesa per consumi delle famiglie bisogna aggiungere, infatti, anche la spesa per beni d’investimento effettuata dalle imprese e dalle famiglie. Di che si tratta? E’ la spesa per l’acquisto effettuato dalle imprese per i nuovi macchinari ed impianti e dalle famiglie e dalle imprese per nuovi immobili[viii]. Accanto al Pil spesso si sente parlare del Pin. Il Pin (Prodotto Interno Netto) è pari al Pil ridotto del deprezzamento subito dallo stock di capitale esistente. La produzione del Pil causa il deterioramento dello stock di capitale esistente: un’abitazione, ad esempio, si deprezza nel corso del tempo, e le attrezzature si logorano con l’uso. Se non venissero usate risorse per conservare o rimpiazzare il capitale esistente, il Pil non potrebbe essere mantenuto al suo livello corrente. Di conseguenza il prodotto netto è una misura migliore del livello di attività economica che, dati lo stock di capitale e le forze di lavoro esistenti, potrebbe essere mantenuto per un lungo periodo. Il deprezzamento dello stock di capitale che nella contabilità nazionale è definito ammortamento, rappresenta una misura della quota di Pil che deve essere messa da parte per conservare intatta la capacità produttiva del sistema economico. Negli ammortamenti, naturalmente, si considera anche l’obsolescenza tecnologica degli impianti. A questi investimenti fissi vanno aggiunti, poi, i cosiddetti investimenti in scorte, nei quali che comprende tutti i beni non venduti nell’anno in corso e collocati nei magazzini delle aziende. In questo caso si parla di investimenti perché è come se le aziende “acquistassero” oggi una produzione per venderla negli anni successivi, indipendentemente dalla circostanza che tali “acquisti” siano o meno volontari, cioè che le scorte si accumulino programmaticamente o perché le previsioni di vendita non si sono realizzate. Quando la produzione corrente è inferiore alle vendite correnti, le scorte si riducono: l’investimento in scorte è negativo. Così negli investimenti in scorte si registrano, effettivamente, le variazioni delle scorte.
Nel nostro ragionamento non abbiamo compreso la spesa pubblica per i beni in uso presso la Pubblica Amministrazione (Stato, Regioni, Comuni, istituti della previdenza obbligatoria quali Inps, Inpdap, ecc.), nonché per i servizi da questa acquistati, ivi compresi, ovviamente, quelli forniti dai dipendenti della Pubblica amministrazione stessa (il cui valore è rappresentato dai loro stipendi). Altre uscite per la PA, e come tali sono contabilizzate nel bilancio pubblico, sono i trasferimenti che a titolo diverso dallo stipendio ai pubblici dipendenti, la PA concede ogni anno alle famiglie (sussidi di disoccupazione, pensioni, ecc.), poiché tali sussidi e trasferimenti non costituiscono immediatamente acquisto di beni e servizi. Alle spese nazionali e cioè compiute da soggetti residenti per l’acquisto di beni e servizi prodotti nel Paese stesso di residenza, vanno aggiunte le spese compiute da soggetti esteri per l’acquisto di beni e servizi prodotti nel paese, ovvero e c.d. le esportazioni; mentre vanno sottratte le spese dei soggetti nazionali (famiglie, imprese e PA) per l’ acquisto di prodotti esteri, ovvero, le importazioni. In pratica, dunque la voce di spesa che conta è il saldo commerciale (differenza tra esportazioni e importazioni), per il quale si usa spesso l’espressione esportazioni nette.
Nascono i Problemi …
Si è detto che il prodotto interno lordo misura il valore dei beni e servizi finali prodotti correntemente dalle unità produttive che operano nel paese ai prezzi di mercato. Ma tale scelta e neutrale rispetto ai calcoli che facciamo, ovvero, impatta sul Pil, o meglio, in altri termini prendendo tutti i prezzi del beni e servizi prodotti esprimiamo un valore esattamente corrispondente al valore della produzione?
Analizziamo la cosa con calma, evitando che il panico ci porti a frettolose congetture! Certamente un primo effetto distorsivo è connesso al fatto che il prezzo di mercato di molti beni scambiati includono anche imposte indirette (ad esempio, in Italia l’imposta sul valore aggiunto, imposte di fabbricazione, ecc.): ne consegue che il prezzo dei beni e dei servizi non è pari a quello che il venditore percepisce; infatti, se il governo decidesse di aumentare, ad esempio, le tasse sul lavoro o sull’impresa il risultato sarebbe l’inevitabile aumento dei prezzi per via della traslazione dell’effetto della tassa sul consumatore finale; per tale via si registrerà, così, un aumento del Pil. Ma i problemi purtroppo non finiscono qui, e tanto per citare un altro dei vari problemi che il tema delle imposte indirette pone circa l’attendibilità delle misure del Pil, si deve constatare che il prezzo, al netto delle imposte indirette, null’altro è che il costo dei fattori (corrispondente appunto a quanto viene percepito dai fattori produttivi capitale e lavoro); la differenza tra il prezzo di vendita e il costo dei fattori produttivi esce allora dalla produzione e viene assorbita dall’operatore pubblico, come imposte indirette e, ridistribuita, sotto forma di spesa della pubblica amministrazione. Una complicazione con conseguenze non da poco !
Infatti, i servizi non destinabili alla vendita e che non hanno un prezzo di mercato, i c.d. servizi collettivi forniti dalle istituzioni sociali (istruzione, difesa, giustizia), vengono erogati a prezzi “politici”[ix], addirittura spesso inferiori ai prezzi di produzione. Ma allora come devono essere valutati? Bene, qui si opera un artifizio, una finzione che -come tutti possono agevolmente comprendere– falsa ancora una volta i dati del Pil: si suppone, infatti, che il valore della produzione dei beni e servizi collettivi sia uguale alla somma dei costi sostenuti, tralasciando tanto per capirci almeno i costi del reintegro del capitale fisico e finanziario!
L’inclusione dei servizi collettivi crea, pertanto, la prima seria problematicità nel calcolo del Pil.Infatti, mentre si suppone che il Pil misuri il valore della produttività, in un settore cruciale –quello della pubblica amministrazione- non abbiamo modo di farlo! Se il governo spende di più ad esempio aumentando gli stipendi dei dipendenti pubblici, l’output aumenta. Le cose si aggravano considerando che, negli ultimi 60 anni, la percentuale dell’output di governo nel Pil è cresciuta dal 21.4 al 38.6 per cento negli Stati Uniti, dal 27.6 al 52.7 per cento in Francia, dal 34.2 al 47.6 per cento nel Regno Unito e dal 30.4 al 44.0 per cento in Germania. Ne consegue che quello che negli anni passati poteva essere considerato un problema relativamente secondario è diventato adesso un complicazione di primaria importanza, capace senza dubbio di ridurre la significatività del Pil.
Tale riflessione sulla valutazione delle sole merci e servizi che abbiano un prezzo, evidenzia un’altra questione, non irrilevante che riguarda i beni e servizi utilizzati nell’autoconsumo. Spieghiamoci meglio con un esempio: il lavoro della collaboratrice familiare (se regolarmente retribuita) è contato nel Pil, ma se lo stesso servizio è reso da un componente del nucleo familiare il suo valore non viene conteggiato nel Pil. Ma allora le conseguenze sono anche qui dirimenti: una notevole parte dell’attività economica non è computata nel Pil!
E le questioni non si esauriscono qui e, spingendoci più in dettaglio, potremmo addirittura distinguere le transazioni che non rientrano nel Pil in due tipologie: un primo tipo rappresentato da transazioni che, pur non essendo strettamente illegali, violano la legislazione legale, come i lavori retribuiti in contanti, mance, lavoro svolto da immigrati irregolari, riparazioni domestiche etc., ovvero, in definitiva, le attività produttive svolte “in nero” e che costituiscono l’economia sommerso. Dette attività sono stimate ed incluse nel Pil, con un procedimento che, pur con le modalità di scientificità che racchiude tale attività è, tuttavia, sempre fatto da stime e da congetture. Un secondo genere, invece, è rappresentato da transazioni illegali quali spaccio di droga, prostituzione, estorsioni, etc. ed altre attività sommerse sono correlate all’elusione ed evasione delle imposte. Le transazioni illegali sono escluse in linea di principio dal calcolo del Pil (ed infatti un altro termine utilizzato in riferimento a questi prodotti è quello di “economia sommersa” per sottolineare come il ciclo di produzione e vendita di questi prodotti non contribuiscono al progresso dell’Economia di uno Stato).
Alcuni economisti ritengono possibile ed utile una stima dell’economia sommersa. Un calcolo approssimativo può essere fatto rapportando il circolante con i depositi: poiché le transazioni irregolari vengono di norma pagate in contanti, si suppone che tale rapporto sia tanto maggiore quanto più grande sia la quota di economia sommersa. Nel complesso, alcune stime indicano che il 30% del Pil Italiano e il 10% di quello Statunitense non è misurato dalla contabilità ufficiale. Il problema principale nel calcolo del valore dell’economia sommersa è che questa non rimane costante nel tempo: se ad esempio fosse una % costante del Pil, non ci sarebbero grossi problemi nel determinarne l’entità. Cosi ragionando, secondo alcuni studiosi, ad esempio, la lenta crescita dell’economia “ufficiale” italiana negli anni ’70 è stata in qualche modo controbilanciata dall’esplosione dell’economia sommersa.
E’ a tutti noto che le fasi dell’economia sono descritte in termini di variazioni di Pil nel tempo: in particolare, è Boom, quando il Pil cresce a ritmi elevatissimi; siamo invece in espansione quando il Pil cresce in maniera sostenuta; in stagnazione se il Pil è stazionario (abbastanza costante); Recessione, infine, quando il Pil diminuisce. Solitamente l’economia (e di conseguenza il Pil) ha un andamento ciclico: ad una fase di espansione, si passa alla stagnazione e poi si ha una fase di recessione. Tuttavia, a bene vedere anche quello che appare come un semplice raffronto nel tempo di una misura necessita, quando oggetto della misura è un dato complesso come il Pil, del chiarimento preliminare, di alcune problematiche di non poco conto; infatti, nel tempo del Pil possono variare sia le quantità prodotte di ogni bene (o servizio offerto), che il loro prezzo (unita di misura su cui è calcolato il valore dei beni e dei servizi), oppure, può accadere che alcuni beni (o servizi) escano di produzione e vengano rimpiazzati (o meno) da altri.
Come fare allora per sapere quanta parte della variazione del Pil è dovuta alle quantità e quanta ai prezzi? Non solo, il Pil è spesso calcolato partendo da dati provvisori (es. sul “Bollettino mensile di statistica”), e quindi le stime vengono progressivamente rivedute dagli istituti di statistica e questo complica ancora di più i calcoli.
La valutazione del Pil viene normalmente fatta a prezzi correnti (quelli dell’anno in corso) e nel qual caso si parla di nominale o a prezzi costanti (quelli di un anno-base preso a riferimento) e allora, si parla di Pil reale; cosi facendo moltiplicando il rapporto fra il Pil dell’anno in corso e quello dell’anno-base (valutati entrambi a prezzi costanti) si ottiene il numero indice % delle quantità[x]. Si utilizzano, pertanto, dei numeri indice che danno una soluzione approssimata del problema. Ma facciamo un esempio per capirci meglio. Premesso che il 1995 costituisce attualmente l’anno base nella misurazione del reddito reale dell’Italia, il Pil reale (e nominale) in Italia era di 81.145 milioni di Euro nel 1995 e di 88.205 milioni di euro nel 2005 (reale perché il valore è espresso in lire del 1995 convertite in euro). Il Pil reale è cresciuto in 10 anni ad un tasso medio dello 0,87%, (88205/81145*100-100/10). E’ evidente che con il Pil nominale (ovvero se i valori fossero tutti a prezzi correnti) il confronto anno su anno non avrebbe alcun senso[xi].
Ma perché il Pil nominale è cresciuto più velocemente del Pil reale ed, in secondo luogo, dei fattori che determinano la crescita del Pil reale? La differenza tra i tassi di crescita del Pil reale e nominale dipende dal fatto che i prezzi dei beni prodotti nell’economia mutano nel tempo. Il Pil reale calcola il valore dei beni prodotti sulla base dei prezzi esistenti nell’anno base (il 1995 in questo caso), mentre il Pil nominale valuta i beni ai prezzi del periodo in cui sono stati prodotti. Poiché i prezzi di quasi tutti i beni sono saliti, il Pil nominale è cresciuto più velocemente del Pil reale. Gli aumenti dei prezzi, ossia l’inflazione, spiegano la differenza tra i tassi di crescita del Pil reale e del Pil nominale.
Veniamo ora alle determinanti nella variazione del Pil reale di un Paese nel tempo. La prima osservazione che va fatta è che la causa delle variazioni del Pil reale sta nel fatto che l’ammontare delle risorse disponibili nell’economia (lavoro e beni capitali) può mutare. La forza lavoro, costituita dagli occupati e da color che sono in cerca di occupazione, se cresce nel tempo rende possibile una maggiore produzione, così, allo stesso modo lo stock di capitale, inclusi gli edifici e le macchine, se aumenta nel tempo consente una crescita della produzione. Gli incrementi nella disponibilità dei fattori della produzione, il lavoro e il capitale utilizzati nella produzione di beni e servizi, spiegano così, in parte, l’aumento del Pil reale. La seconda causa di variazione sta in una modifica dell’impiego delle risorse date, disponibili per la produzione in quanto non tutto il capitale e la forza lavoro disponibili sono sempre effettivamente utilizzati. Nel 1995, in Italia per esempio, una riduzione dell’occupazione, ossia un aumento della disoccupazione, si manifestò in un abbassamento del Pil reale. Dati i fattori della produzione, quindi, variazioni della loro utilizzazione fanno variare il Pil reale. Una ultima causa di variazione del Pil reale sta nella possibilità di variazioni di efficienza nell’impiego dei fattori della produzione. Gli stessi fattori possono produrre nel tempo quantità maggiori. Tali aumenti di efficienza produttiva derivano da mutamenti nelle conoscenze, incluso l’apprendimento tramite l’esperienza, ossia quella migliore esecuzione degli stessi compiti ottenuta appunto tramite l’esperienza.
Se passiamo, poi a comparare i Pil di Paesi diversi, occorre osservare che innanzitutto non è possibile confrontare direttamente il prodotto fra più Paesi, ma per isolare l’influenza della popolazione sul confronto, bisogna calcolare il Pil pro capite, ovvero dividerlo per il numero degli individui. Dal rapporto scaturisce (pil reale/popolazione) si ottiene il valore medio della ricchezza prodotta da ogni singolo individuo. Dato il PIL italiano del 2005 e del 1995 e la popolazione italiana rispettiva, otteniamo il PIL reale pro capite, che è stato pari a 18.920 euro nel 1995 ed a 20.341 euro nel 2005: vale a dire, il valore medio per individuo della produzione ottenuta nell’economia italiana nel 2005 è stato di 20.341 euro.
Peraltro, nel calcolo del Pil ogni singolo Paese adotta particolari criteri per la valutazione di Prodotto, che conseguentemente minano un reale confronto delle performance degli Stati. Un ulteriore problema che si pone fa riferimento al tasso di cambio da adottare per rendere omogenei i dati: convertire tutti i dati in un’unica valuta (solitamente in dollari americani) secondo iltasso di cambio nominale può essere fuorviante, in quanto esso solitamente riflette, oltre a quelli reali, aspetti speculativi dell’economia. Ad esempio, il tasso di cambio certo per incerto di un PVS può essere artificialmente gonfiato da ondate speculative sul mercato internazionale delle valute. Un tasso di cambio come la Parità dei Poteri d’Acquisto (PPP) potrebbe essere più adeguata, tuttavia il calcolo della stessa PPP è assai problematico. Inoltre, in un Paese potrebbero esserci prodotti che non esistono in un altro e viceversa.
Fino ad ora abbiamo cercato di spiegare cosa sia in realtà il Pil e come si arriva ad farne un calcolo, che abbiamo visto molto come sia in realtà molto più approssimativo di quello che in prima approssimazione possa sembrare. Tuttavia, se preso come parametro di misura della produzione, tale valore, può considerarsi sufficientemente esplicativo di quello che il Paese ha generato in termini di beni e servizi in un anno: più produzione significa che si è generato più reddito e quindi che è possibile una maggiore spesa.
La questione, invero, si complica quando da tale valore vogliano ottenersi informazioni ulteriori e non proprie quali il progresso o meno del Paese. Penso ad esempio alla questione del benessere di un Paese misurato dal Pil pro capite. Tale valore non ci informa, tuttavia, di come la ricchezza sia concentrata. A tal fine, si usa fare il rapporto fra il 10% della popolazione più ricca ed il 10% della popolazione più povera, ottenendo, in questo modo, un indice della polarizzazione dei redditi. All’aumentare di questo valore (rapporto), aumenterà anche la disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Non è questo, tuttavia, l’unico modo di ottenere informazioni più serie del benessere di un paese. Un altro strumento utile è costituito dalla curva di Lorenz, che mette, invece, in evidenza la quota di reddito posseduta da fasce via via crescenti di popolazione. Se il reddito fosse distribuito in maniera uniforme, la curva coinciderebbe con la retta a 45° uscente dall’origine. Poiché invece la distribuzione effettiva dei redditi implica sempre qualche disuguaglianza, la curva assume una forma concava. All’aumentare della difformità della distribuzione, aumenterà anche la concavità[xii].
Benché l’introduzione del Pil pro capite elimini l’influenza della numerosità della popolazione sul Pil e dia in un certo modo una misura più accurata della ricchezza degli abitanti di una nazione, nulla ci dice su come realmente il Prodotto Nazionale sia effettivamente suddiviso fra di essi. Infatti il reddito mediano (che bipartisce la popolazione in 2 parti uguali) non coincide col reddito medio. Ad esempio nei Paesi dell’UE la quota di reddito nazionale appartenente al 10% più povero della popolazione si aggira attorno al 3%, mentre quella del 10% più ricco supera il 20% e nei PVS queste differenze sono notevolmente più marcate. Ciò significa che vi sono diseguaglianze in crescita tra i guadagni medi (intermedi) ed il guadagno medio (ossia quello della persona «media», i cui redditi si collocano a metà nella scala di distribuzione dei guadagni). In definitiva se un gruppetto di banchieri si arricchisce, il guadagno medio può salire, anche se la maggior parte dei guadagni individuali scende. Pertanto, le statistiche del Pil pro-capite possono non riflettere correttamente ciò che la maggior parte dei cittadini sperimenta.
Ma tutti questi calcoli a cosa portano? Bene, è ora di riportare il discorso al punto in cui eravamo partiti nel senso che se si vuole misurare quanto si sia prodotto, il Pil – pur con accorgimenti e molte precauzioni – può essere uno strumento utile. Ma se da questo si vuole dedurre una misura del benessere, siamo davvero fuori strada e, i tentativi di aggiustamenti del Pil attraverso rettifiche che tentino di misurare i danni dello sviluppo si avvitano in una valutazione del benessere sociale che non porta – a nostro avviso – da nessuna parte. Viceversa, il pericolo vero viene dall’aver consegnato le politiche economiche dei Governi e gli investimenti finanziari in termini di Pil, che si andata affermando negli ultimi anni. Ed i vincoli di bilancio imposti a Maastricht ne sono un scintillante esempio …
* esperto in economia e finanza
[i] Edizioni di Comunità, Milano 1998
[ii] Leggasi in materia, “I limiti dello sviluppo”, redatto già nel lontano 1972 dal Club di Roma (titolo originale: “Limits to growth” – “I limiti della crescita”) e il recente “Happy Planet Index”, studio internazionale realizzato dalla londinese New Economics Foundation
[iii] Il “teorema” di Coase, frutto degli studi di Ronald H. Coase che lo pubblicò nel 1960 nell’articolo The Problem of Social Cost che gli valse il Premio Nobel per l’economia nel 1991
[iv] Si veda in particolare il terzo ed il quinto libro della repubblica di Platone, dove a proposito dei Guardiani della città, ovvero, dei guerrieri posti a difesa della città dove il le condizioni di vita, ispirate ad un rigoroso collettivismo, con la comunione dei beni e degli affetti, è alla base di una vita interamente dedicata al bene comune, ovvero, in Aristotele, Politica, nelle pagine dedicate alla crematistica, l’arte che produce beni.
[v] Il 19 e 20 novembre 2007
[vi] Le cinque azioni che la Commissione ha predisposto nella comunicazione per superare il PIL: nel 2010 verrà presentata una versione pilota di un indice ambientale che includerà aspetti quali le emissioni di gas serra, il deterioramento del paesaggio naturale, l’inquinamento atmosferico, l’utilizzo dell’acqua e la produzione di rifiuti; intensificare gli sforzi miranti a produrre più rapidamente i dati ambientali e sociali. Attualmente i dati sono spesso pubblicati a distanza di due o tre anni, mentre i dati economici essenziali sono diffusi entro poche settimane. relazioni più accurate su distribuzione e diseguaglianze consentiranno una migliore definizione delle politiche in materia di coesione sociale ed economica; la Commissione svilupperà una tabella europea di valutazione dello sviluppo sostenibile per permettere di determinare le tendenze ambientali e il benchmarking delle migliori pratiche. La tabella di valutazione sarà basata su un insieme già esistente di indicatori dello sviluppo sostenibile; La Commissione lavora all’integrazione del PIL e dei conti nazionali, che presentano la produzione, il reddito e la spesa nell’economia, con una contabilità ambientale e sociale
[vii] Come risulta dal semplice calcolo che segue: (0,10€X20+0,25€X 60=17€)
[viii] L’acquisto di vecchi immobili non è una spesa registrata nel Pil, ma rappresenta un impiego della ricchezza di famiglie e imprese
[ix] Tali prezzi sono correlati a servizi che, per ragioni di politica “sociale”, non sono connessi a valutazioni di convenienza economica particolare dell’azienda pubblica che li eroga, bensì a valutazioni di convenienza/opportunità per la comunità. Essi non sono necessariamente inferiori al costo
[x] Il numero indice dei prezzi è invece dato dal rapporto % tra la valutazione del PIL a prezzi correnti e quella a prezzi costanti, e viene chiamato deflatore implicito del PIL. Deflatore implicito = PIL (p correnti) / PIL (p costanti)
[xi] Nell’economia italiana il valore del Pil è stato nel 2005 di 88,2 miliardi di Euro (valutato in base ai prezzi del 1995 convertiti in Euro)
[xii] L’area tra la retta e la curva descritta dalla distribuzione effettiva, dà una misura della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi