Boyhood, 12 anni schiavo
UN FILM di 3 ore, realizzato in 10 anni per narrare 12 anni di una vita_____________una analisi critica di Sabina INCARDONA
La trama. – Il film racconta la vita di Mason (Ellar Coltrane) a partire da quando era un bambino di 6 anni, percorrendone le vicende familiari, il rapporto coi genitori divorziati (Ethan Hawke e Patricia Arquette) e la crescita personale e sentimentale. Il tutto nell’arco di tempo reale di 12 anni (2002-2013).
Dodici anni di lavorazione per quasi tre ore (superflue) di proiezione, finita la quale ti trovi a ricollegare/giustificare ogni riflessione nell’ottica di “Oh, però l’ha girato in 12 anni!”
Sarò onesta e dirò che tante considerazioni non le avrei neppure fatte se non mi fossi trovata di fronte a un film tanto impegnativo, nelle intenzioni e nella pratica.
Di questo film salvo: alcuni paesaggi, una buona direzione della fotografia, alcuni brani country della colonna sonora e soprattutto l’interpretazione ma ancor di più il personaggio di Ethan Hawke (candidato a miglior attore non protagonista).
Da padre forse un po’ immaturo, tanto da sembrare totalmente inadeguato alla crescita di due figli, si rivela essere l’educatore ideale: giocoso, osservatore, sempre presente e mai invadente, libertario ma attento. A ben vedere forse più vicino a considerare le inclinazioni naturali dei due ragazzi di quanto non faccia la madre che, nella quotidianetà svolge il compito certamente più rognoso di colei che porta a casa la pagnotta e detta le regole.
Tolto questo e poco altro, ciò che rimane è un film senza dubbio piacevole, una storia realistica a tratti molto difficile e senza grandi colpi di scena. Quello che di fatto è la vita di molti di noi, che scorre fra quotidianità ed eventi personali rivoluzionari.
Se il film fosse stato solo questo, se non fosse stato girato in 12 anni, se non fossi stata costretta a dover considerare questa scelta registica fondamentale, il mio giudizio sarebbe stato molto più clemente perché la aspettative create attorno a questo prodotto hanno disatteso la pratica della visione. Che sul finale, almeno per gli ultimi 45 minuti, diventa superflua e un po’ forzata.
Si sa che l’inizio e ancor più la fine di un racconto sono importantissimi.
In un film che si apra su una porzione di vita di un personaggio e si concluda in un’altra che non sia la sua morte diventa già difficile, senza avere la pretesa fastidiosa di avere una morale da comunicare, arrivare a soddisfare lo spettatore. Figurarsi quando lo stesso si trovi ad esser messo di fronte al un progetto talmente ambizioso e poi si imbatta in una storia così “semplice”.
Perché nelle platee di tutti i cinema del mondo non saranno seduti solo “gli esperti” dell’Acàdemy e perché un film NON DEVE avere una morale o quello che in maniera agghiacciante e tanto vaga oggi viene chiamato il “messaggio”.
Però una qualità un film per essere valido deve certamente averla. Ed è quella di non dover essere spiegato tradotto scarnificato a posteriori. Né introdotto da chissà quali preamboli, trailer o esegesi.
Perché una barzelletta è divertente se mi ha fatta ridere. Se me la spieghi dopo sicuramente l’avrò capita ma non sarà stata efficace.