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CNEL > Relazione sul LAVORO delle DONNE

Stati generali sul lavoro delle donne in Italia

CNEL  – 10 aprile 2013

  Spunti per l’intervento della Vice Presidente di Piccola Industria di Confindustria, Maria Cristina Bertellini

L’occupazione femminile

Favorire la partecipazione delle donne alla vita economica e sociale è una fondamentale opportunità per il Paese verso la cui realizzazione le istituzioni pubbliche e le forze economiche e sociali devono tendere affinché esse (le donne) possano concorrere alla ripresa e vedere riconosciuta la propria professionalità. Per agevolare questa partecipazione è però necessario dare avvio alla ripresa economica, intervenire sulla disciplina che regola l’ingresso e la permanenza nel mercato del lavoro, nonché sulle componenti esogene al rapporto di lavoro (la formazione scolastica/professionale, i servizi di cura e custodia, i tempi delle città) determinanti la partecipazione medesima.

Crescita economica

Presupposto fondamentale per qualsiasi politica che incentivi in maniera significativa l’occupazione è la crescita economica. Nel manifesto “Progetto Confindustria per l’Italia, crescere si può e si deve” chiediamo di ridare all’Italia efficienza e nuova competitività  con politiche coraggiose che migliorino le istituzioni, semplificando le regole al fine di offrire nuove opportunità alle giovani generazioni, rendere più forte il sistema produttivo e favorire la prosperità. Gli elementi che concorrono alla realizzazione di maggiore efficienza e competitività sono stabilità dei conti pubblici, flessibilità del lavoro, pieno utilizzo dei fondi comunitari, apertura dei mercati alla concorrenza, aumento e diffusione della conoscenza, innalzamento della partecipazione al lavoro, promozione dell’innovazione, dell’internazionalizzazione e dell’attrattività degli investimenti esteri.

Proposta di intervento in ordine alla disciplina che regola il mercato del lavoro.

Flessibilità in entrata

Confindustria considera necessario intervenire sulla disciplina di legge che riguarda la flessibilità in entrata per dare al nostro mercato del lavoro un quadro regolatorio più certo e di maggiore sistematicità, volto a sostenere la ripresa economica e l’occupazione.  Nell’ultimo decennio il mercato del lavoro italiano, infatti, ha compiuto importanti passi in avanti sotto il profilo della flessibilità in entrata. Si è trattato di conquiste importanti che hanno consentito al nostro Paese di vedere accresciuto il tasso di occupazione maschile e femminile anche in anni durante i quali, come noto, l’andamento del PIL ha mostrato una crescita inferiore alla media europea.

Dal 1997 al 2011 il tasso di occupazione femminile è, infatti, cresciuto di 10,9 punti percentuali nella classe di età 20-64 anni (dal 39,2% al 49,9% – dati Eurostat). Era essenziale, pertanto, evitare scelte di eccessivo irrigidimento delle discipline legali delle singole tipologie contrattuali “in entrata”, specie in un momento difficile per l’occupazione come quello attuale. La legge Fornero che si prefiggeva di combattere la cattiva flessibilità e difendere quella buona, in realtà ha finito, invece, per comprimere tutte le forme di flessibilità. In questo modo si sono  ridimensionati molti dei benefici che erano conseguiti alle riforme Treu e Biagi. Con quelle riforme, pur in presenza di alcuni eccessi, l’Italia si era dotata di forme contrattuali simili a quelle presenti in Europa e ciò aveva permesso di ridurre la disoccupazione e far crescere significativamente il tasso di occupazione. Confindustria considera, inoltre, necessario intervenire sulla disciplina introdotta dalla legge Fornero con particolare riferimento ai contratti a tempo determinato. L’attuale disciplina ha infatti reso questo contratto più oneroso per le imprese (+1,4% a carico del datore del lavoro), ha modificato la disciplina relativa alla reiterazione dei contratti (intervalli) e ha limitato la durata massima dei contratti a tempo determinato con il medesimo dipendente (36 mesi comprensivi di proroghe e rinnovi). Notevoli criticità si rilevano anche in tema di lavoro a progetto e di prestazioni rese in regime di partita iva con particolare riferimento al regime delle presunzioni. La somma di presunzioni relative ed assolute finisce per delineare un quadro regolatorio eccessivamente rigido e penalizzante  i genuini rapporti di lavoro autonomo.

Apprendistato

I giovani non possono più prescindere, nel compimento della scelta scolastica, da una ponderata analisi delle reali possibilità occupazionali offerte dal mercato del lavoro perché in un’economia che si fa sempre più complessa la crescita dell’occupazione si realizza necessariamente attraverso percorsi scolastici e formativi adeguati e in raccordo con i bisogni espressi dal mondo produttivo. L’istituto dell’apprendistato, che si pone l’obiettivo di semplificare l’accesso ad un contratto di lavoro e che ha il pregio di favorire la transizione scuola-lavoro deve, pertanto, divenire la principale forma contrattuale per l’inserimento lavorativo dei giovani, donne e uomini proprio perché strumento agevolato di raccordo fra la formazione e il mondo del lavoro. Le imprese di Confindustria sono particolarmente interessate all’ apprendistato di alta formazione e all’apprendistato professionalizzante. Quest’ultima tipologia, risulta tuttavia, meno diffusa rispetto a quanto potrebbe essere. Il ricorso a questa tipologia contrattuale, infatti, è stato penalizzato dalle contraddizioni di un quadro normativo che non risolveva con chiarezza il conflitto di competenze tra lo Stato e le Regioni e determinava conseguenti gravi incertezze applicative. La legge Fornero ha salvaguardato l’impianto della riforma voluta dal ministro Sacconi che ha individuato una soluzione di compromesso accettabile in ordine alle più evidenti criticità della precedente disciplina. La legge Fornero ha però introdotto una penalizzazione anche per l’apprendistato, subordinando per legge la possibilità di assumere nuovi apprendisti alla conferma, nei 36 mesi precedenti, di almeno il 50% dei rapporti di apprendistato instaurati.

Ammortizzatori sociali

Confindustria considera la parte della riforma Fornero dedicata agli ammortizzatori sociali una occasione perduta. In sostanza la riforma non realizza nessuna universalizzazione delle tutele né introduce nel nostro attuale sistema maggiore equità. La volontà annunciata dall’Esecutivo di spostare il focus dalle politiche passive alle politiche attive non trova nessun riscontro nella riforma. Manca del tutto, infatti, una disciplina per le politiche per l’impiego.

La riforma si limita a sostituire l’indennità di disoccupazione con l’ASPI (assicurazione sociale per l’impiego) lasciando sostanzialmente inalterato l’attuale livello di copertura. Si modificano leggermente le durate e i relativi trattamenti senza tuttavia determinare un significativo mutamento del quadro generale di riferimento.

Invecchiamento attivo

La riforma del sistema pensionistico operata nell’ultimo anno (e in particolare con il decreto Salva Italia) impone una riflessione anche sul tema dell’invecchiamento attivo delle donne occupate e della necessità di interventi a favore della solidarietà intergenerazionale. L’allungamento della vita attiva richiederà, da un canto, un notevole adattamento di pianificazione della vita, di pratiche aziendali, di strutture retributive, dall’altro, la necessità di ideare degli strumenti per facilitare e incentivare l’ingresso e l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Potremmo parlare, a questo fine, di un patto di solidarietà intergenerazionale (cd. progetto ponte) che si fonda sulla disponibilità dell’azienda ad investire su nuove assunzioni di giovani in cambio della disponibilità di lavoratori anziani in forza a trasformare, in vista della pensione, il proprio contratto da full-time a part-time. La modalità organizzativa del part-time dovrebbe comunque presupporre una contrattazione tra le parti, demandando a queste ultime l’effettiva percorribilità dello strumento.L’eventuale integrazione contributiva dovrebbe essere “incentivata” mediante specifici strumenti normativi.

Proposta di intervento sulle componenti esogene al rapporto di lavoro determinati la partecipazione delle donne alla vita economica e sociale

Formazione scientifica e tecnologica per una maggiore occupabilità delle donne

Per essere competitivi in un’economia globalizzata è fondamentale essere in grado di sviluppare innovazione di processo e di prodotto ed investire in professionalità elevate e qualificate. Una delle difficoltà incontrate dalle imprese italiane per l’accrescimento della competitività è rappresentata dalla non sempre adeguata rispondenza dei  profili tecnici – disponibili nel mercato del lavoro italiano – alle esigenze delle imprese. Per contribuire a colmare questo gap fra domanda ed offerta di professionalità tecniche, Confindustria organizza, fra l’altro, tutti gli anni un evento, “Orientagiovani” per offrire agli studenti l’opportunità di conoscere più da vicino il mondo dell’impresa ed avere indicazioni utili per scelte formative che possano favorire il successivo inserimento professionale (istruzione tecnica e lauree scientifiche) e diffondere un’adeguata cultura tecnologica nelle scuole. La formazione scientifica e tecnologica rappresenta, infatti, un’opportunità per l’inserimento delle giovani donne nelle alte professioni: nel 2011 i migliori esiti occupazionali – a quattro anni dalla laurea (corsi a ciclo unico) – si osservano tra i laureati dei gruppi ingegneria (89,7%), e chimico-farmaceutico (84,9%).

Nonostante questi dati, nell’anno accademico 2012/2013 gli immatricolati alle facoltà di ingegneria di sesso femminile erano soltanto il 24,9% a fronte del 24,5% nell’a.a. 2011/2012 e del 23,6% nell’a.a. 2010/2011. Un trend di crescita ancora eccessivamente lento – seppur migliore rispetto al passato –  su cui è necessario investire con più efficaci azioni di orientamento dei giovani durante il percorso scolastico.

I servizi pubblici per l’infanzia e la non autosufficienza

Le imprese fanno moltissimo per sostenere il work life balance mediante servizi di cura e custodiain house/in convenzione offerti ai propri dipendenti, flessibilità di orario, servizi salvatempo come il maggiordomo aziendale, la lavanderia, la ristorazione take away, – Tuttavia, è lo Stato con le Regioni e le Autonomie locali a dover attuare politiche pubbliche integrate – anche con il concorso dei privati – per garantire servizi alla famiglia adeguati per qualità e quantità e nuovi “tempi delle città”, non potendo le politiche conciliative avere a riferimento principalmente la disciplina del rapporto di lavoro e l’organizzazione del lavoro. Infatti, per favorire un’alta partecipazione delle donne alla vita economica e sociale non si può prescindere dalla presenza nel territorio di una rete articolata e capillare di servizi di cura e di custodia destinati all’infanzia e alla non autosufficienza.L’importanza di quanto appena sostenuto è avvalorata dalla  Raccomandazione del Consiglio Europeo del 10 luglio 2012 all’Italia (sul programma di stabilità dell’Italia 2012-2015) nella quale si invita il nostro Paese a porre in essere ulteriori azioni in materia di strutture per l’infanzia e per l’assistenza agli anziani. A tal riguardo, infatti, in Italia si registrano forti differenziazioni territoriali. In base ai dati diffusi dal Ministero dello Sviluppo Economico la percentuale di bambini fino a 3 anni che nel 2010 nel nostro Paese ha utilizzato i servizi per l’infanzia (asili nido, micronidi, o servizi integrativi e innovativi) sul totale della popolazione è stata del 13,9%. Stesse condizioni di insufficienza rispetto alle necessità espresse dalla popolazione  residente in Italia si registrano nell’assistenza domiciliare integrata (ADI) della popolazione anziana che vede nel 2011 il nostro Paese con un indice di copertura, rispetto al totale della popolazione con più di 65 anni, pari al 4,1%. Ancora più evidenti alcuni differenziali territoriali. Nel Mezzogiorno (dati 2011, fonte  Ministero dello Sviluppo Economico per obiettivi di servizio/gennaio 2013):

solo il 5% dei bambini fino a 3 anni ha utilizzato i servizi per l’infanzia (asili nido, micronidi, o servizi integrativi e innovativi);

solo il 2,7% della popolazione con più di 65 anni è rientrato nel programma di assistenza domiciliare integrata

In Italia, oltre un milione di persone inattive sarebbero disposte a lavorare se potessero ridurre il tempo impegnato nella cura e assistenza dei figli e dei non autosufficienti. Nelle Regioni meridionali si apprezzano le percentuali più alte – nel confronto nazionale – di persone (oltre tre inattive su dieci) disposte a lavorare se potessero ridurre i propri carichi familiari. (La conciliazione tra lavoro e famiglia. Istat. 28 dicembre 2011). Questi dati sono sconfortanti soprattutto tenendo conto delle risorse a disposizione delle regioni Obiettivo Convergenza. A questo fine, la riprogrammazione delle risorse comunitarie, avviata con il Piano di Azione Coesione, voluto dal Ministro Barca, può senz’altro rappresentare per queste regioni un’occasione per accelerare il processo di realizzazione di un’offerta pubblica adeguata per quantità e qualità dei servizi di cura.Assicurare servizi di cura e custodia adeguati, per qualità e quantità, è condizione preliminare e necessaria per l’accrescimento del tasso di partecipazione alla vita economica e sociale delle donne.

Infatti, pare possibile sostenere che – anche in Italia – la presenza di adeguati servizi di cura e custodia per bambini e non autosufficienti, rappresenti una condizione di vantaggio per la partecipazione delle donne al lavoro senza alcuna compromissione per la famiglia. Basti pensare al caso della Campania e dell’Emilia Romagna: nella prima regione il tasso di occupazione femminile è del 25,4% e quello di natalità dell’1,39%, nella seconda il tasso di occupazione femminile è del 60,8% e quello di natalità dell’1,46%. (2011, fonte Istat) – Questa situazione trova anche un riscontro nei dati di trend. Negli anni 1995-2011 il tasso di fecondità è risultato negativo soltanto nelle regioni meridionali, mentre nelle regioni del Nord e del Centro è risultato positivo. (2011 “Natalità e fecondità della popolazione residente” – Istat).

I tempi delle città e i tempi del lavoro

I tempi delle nostre città sono eccessivamente rigidi, in particolare per quel che riguarda i servizi pubblici, ma anche per quel che concerne i negozi e in generale i servizi offerti da privati. Modificare i tempi e gli orari delle città significa favorire una maggiore partecipazione al lavoro delle donne e non solo. La legge n. 53 del 2000 – che aveva dedicato uno specifico articolo alla materia – è rimasta completamente inattuata perché pochi sono i comuni italiani che hanno adottato politiche articolate di riorganizzazione degli orari della città, dei servizi e dei trasporti, come invece previsto dalla legge. A questo fine, è auspicabile un intervento deciso delle Istituzioni pubbliche affinché siano ampliati gli orari di apertura degli asili nido, delle scuole per l’infanzia, degli ospedali ed in generale di tutti quei servizi pubblici necessari alle persone e alle famiglie. Le nostre città dovrebbero tenere in maggior conto le necessità delle persone, anche con riferimento al sistema dei trasporti che dovrebbe essere organizzato in modo moderno ed intermodale.

Conclusioni

L’accrescimento del tasso di occupazione femminile e della partecipazione delle donne alla vita economica e sociale non dipende esclusivamente dalle scelte organizzative delle imprese.Dipende semmai, e principalmente, da un complesso di fattori interdipendenti fra loro, sui quali possono incidere più efficacemente le scelte operate dalle pubbliche istituzioni. Ciò non esclude che anche le imprese possano favorire e valorizzare la permanenza delle donne nel mondo del lavoro mediante iniziative di welfare aziendale ma l’onere principale resta in capo ai decisori pubblici che hanno il compito di elaborare e porre in essere strategie e politiche adeguate per una sempre più ampia partecipazione delle donne alla vita economica e sociale.

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