Effemeride: Ettore Sottsass
Il 14 settembre 1917, in piena guerra mondiale nasceva a Innsbruck il futuro architetto designer Ettore Sottsass.
La madre era austriaca, il padre, trentino, era un irredentista (ma combattente nell’esercito imperiale) di professione architetto.
Passò l’infanzia dai nonni in Tirolo; i colori della natura del luogo gli resteranno impressi e li ritroveremo nei suoi lavori di adulto.
Dopo la guerra la famiglia Sottsass si trasferì a Torino dove Ettore potè studiare al liceo scientifico “Galileo Ferraris” e laurearsi in Architettura nel 1939, ma dove il padre, bravo architetto che non riuscì però mai a decollare nella professione, si accontentava di piccoli lavori riuscendo raramente a vincere qualche concorso, magari per qualche monumento ai Caduti e si dedicò alla ricostruzione dei piccoli paesi delle Dolomiti danneggiati dalla guerra.
Ripensando a quel periodo, a suo padre e all’architettura, scriverà: “In genere, l’architettura della prima metà di questo secolo era un’architettura del fare, del costruire bene. Oggi l’architetto disputa, teorizza. Io stesso sono uno che, quasi quasi, pensa più che disegnare. Fra mio padre e me, fra la sua e la mia generazione, c’è appunto questa differenza. Lui era un architetto artigiano. In un certo senso, aveva dentro di sé anche un capomastro. Erano così anche i protagonisti della fantastica stagione viennese. Forse Adolf Loos era l’intellettuale architetto come lo immaginiamo noi. Ma articoli, saggi di Otto Wagner, come di altri grandi dell’epoca, ne trovi pochi. Era un’architettura del fare, del costruire bene.”.
Nel 1937 Ettore Sottsass riuscì ad andare a Parigi, a vedere l’Expo, ne tornò entusiasta.
I suoi entusiasmi e le sue critiche erano materia per articoli sul giornale dei GUF (Gruppi Universitari Fascisti) di Torino, “Il Lambello”, pubblicazione diretta da Guido Pallotta, vera palestra di dibattiti sull’arte alla quale collaborava tra i tanti anche un’altro universitario, il paroliere e jazzista Leo Chiosso che Sottsass ritroverà sulla Linea Gotica, ufficiale combattente come lui nella Divisione alpina “Monterosa.
Infatti, subito dopo la laurea vestì la divisa di ufficiale degli Alpini per sei anni.
Una notte del 1941 mentre stava rientrando al reparto, a Chivasso, si mise a parlare con uno sconosciuto sul treno, la chicchierata finì sull’architettura e lo sconosciuto, un signore sulla cinquantina dopo un po’ gli disse: “Allora lei è Sottsass”…. Era l’architetto Giò Ponti che lui aveva attaccato sul “Lambello” come esponente passatista rispetto all’amato Le Corbusier. “Mi sentii un verme…”, scriverà Sottsass narrando l’episodio qualche decennio dopo.
I miei amici lo sanno che vado spesso a finire nella storia del fascismo, anche in questo caso, seppure en passant…. Giò Ponti fu un collaboratore del “Corriere della Sera” durante la Repubblica Sociale e lo svizzero Le Corbusier (Charles-Edouard Jeanneret), dopo un iniziale innamoramento per il comunismo….. finì negli anni ’30 per spostarsi verso una delle tante sfaccettature del fascismo alla francese, convinto che soltanto esso sarebbe stato in grado di attuare i suoi progetti urbanistici. Ma ne riparleremo, magari in qualche “effemeride”.
Tornando a Sottsass e al suo incontro con Ponti, quella conoscenza coincise con un ritardo nel rientro in caserma che incise fortemente sul suo destino. Da poche ore il G.U.F. suo reparto era partito per la Russia…. Nel destino di Sottsass, come vedremo, Giò Ponti avrà in seguito, ben altra influenza.
Per il fronte partì comunque anche se per altra destinazione.
Il disastro dell’8 settembre 1943 lo colse in Montenegro, come tutti i militari italiani che si trovarono improvvisamente a vedersela con chi li considerava traditori, fu fatto prigioniero dagli ustascia croati e portato a Sarajevo.
Da lì, quando la Repubblica Sociale Italiana formò le quattro Divisioni del nuovo esercito repubblicano (Monterosa, Italia, Littorio e San Marco), Sottsass scelse e riprese il suo posto di ufficiale degli Alpini nella Divisione “Monterosa” e vi rimase fin quasi alla fine della guerra.
Fernanda Pivano, la ragazza che avrebbe sposato quando ormai tutto stava crollando, lo indusse a disertare. “Era un modo per non essere coinvolto in odi successivi”, dirà in una famosa intervista all'”Espresso”. Tradotto, un modo come un altro per sfuggire alla mattanza di fascisti alla fine della guerra.
Prenderà le distanze Sottsass da questo suo passato di combattente nell’ultimo, disperato, fascismo. Lo farà come tantissimi altri, come Dario Fo, per limitarsi a quella parte geografica d’Italia, come lo farà per tanti anni lo stesso Giorgio Albertazzi salvo alla fine degli anni ’80 togliersi la maschera e affermare che era stato costretto a farlo dalla mafia intellettuale che altrimenti lo avrebbe emarginato e avrebbe azzerato la sua arte.
E come stavano le cose, per chi voleva emergere come Sottsass dalla povertà della nuova Italia, lo dirà chiaramente nell’accennata intervista: “Non ho subito rappresaglie, ma l’ostracismo silenzioso sì. A Milano, e anche a Torino, gli amici di Fernanda mi guardavano con sospetto. Tra loro, solo Vittorini mi ha voluto bene, tanto da farmi scrivere anche un articolo sul ‘Politecnico’. C’era poi l’aggravante della povertà””.
“”C’era forse qualche ricco tra gli intellettuali del dopoguerra?””. “”Eravamo tutti morti di fame, è vero, ma io lo ero di più, con la mia aria persa e sempre la stessa giacca. Inoltre cominciavo a fare cose che sembravano provocazioni. Un armadietto con un buco per un negozio milanese, ad esempio, mi ha privato per sempre del saluto di Ernesto Rogers, il direttore di ‘Casabella’….””.
Nel 1947, povero e disoccupato lasciò Torino per Milano alla ricerca di lavoro, in procinto di sposarsi con la Pivano – lo farà nel 1949 – l’intellettuale formatasi a Torino, compagna di classe di Primo Levi che fece impazzire d’amore il suo insegnante di italiano, Cesare Pavese e nel 1948 aveva detto no alla richiesta di matrimonio di Ernst Hemingway.
Sottsass vivacchiò ancora per un decennio, teorizzando parecchio e facendo design in qua e là, finì anche in Toscana, ad Agliana, in provincia di Pistoia, a lavorare per la Poltronova, una grande azienda di mobili.
Poi, grazie a Giò Ponti che pubblicava spesso su “Domus” i suoi lavori in ceramica (“Era un uomo gentile, mi voleva bene. Era tollerante con i giovani e i loro sbagli”, scriverà di lui) fu chiamato da Giorgio Soavi a partecipare ad un concorso per un designer all’Olivetti.
Altra digressione: lo scrittore Soavi era un altro di quelli che si erano rifatti una verginità ma che venivano dalla stessa esperienza dell’ultimo fascismo repubblicano. Prima di diventare lo scrittore e poeta famoso, vincitore del Premio Campiello, collaboratore di Adriano Olivetti sulle colonne della rivista “Comunità” e marito di Lidia, figlia dell’illuminato imprenditore e intellettuale di Ivrea, era stato anche lui un combattente della RSI, nella Xª MAS era stato tra quelli che avevano affrontato gli americani contendendogli metro per metro il terreno dopo lo sbarco di Anzio, tra Nettuno e Roma a fianco di Mario Tedeschi il futuro direttore de “Il Borghese”, seguendo poi il reparto nei suoi spostamenti tra Vittorio Veneto, Ivrea e Milano.
Per Sottsass, grazie alla catena Ponti>Soavi>Olivetti la vita cambiò radicalmente. La coppia Sottsass-Pivano fino a quel momento era riuscita a sopravvivere da un punto di vista alimentare, Ettore fabbricando cestini di fil di ferro per campare, poté finalmente cambiar vita.
Sottsass si dedicò al design dell’Olivetti: mobili, grandi macchine, macchine da scrivere, calcolatori elettronici….. Gli capitò anche di affrontare il primo tentativo di invasione del mercato da parte della Cina, realizzando la macchina da scrivere “Valentine” in moplen, a basso costo.
A margine riuscì anche a collaborare con l’anziano padre alla progettazione di case popolari in Sardegna.
Eppure seppe tenere a bada il successo, impegnandosi perché almeno nel suo campo ristretto non trionfasse la mercificazione di massa.
Una produzione artigianale finita in parte nelle gallerie d’arte e nelle mostre.
Pare che abbia avuto notevole successo anche la mostra del 1999 al Museo di Arte contemporanea Pecci di Prato; ce l’ho dietro casa ma da sempre mi distuba esteticamente la presenza di questo “centro” (oggi, per il mio gusto, ancor più peggiorata da un nuovo vestito da “astronave” come ho di recente documentato con alcune foto) e quindi, snobbandolo, seppi della mostra delle opere di Sottsass quando orami era finita.
Mi piace concludere questo ritratto di Ettore Sottsass citando due sue frasi che condivido, una sul design d’arredamento: “Oggi le riviste di architettura sono soprattutto cataloghi di pubblicità, pagine di sedie e divani, perché quello si vende. Quello è l’arredamento. Invece una stanza non è solo un divano per ricevere gli amici, è un luogo dove si vive a lungo, dove si consumano arrivi e abbandoni. Un luogo che bisogna conoscere”; l’altra sull’architettura: “L’architettura deve essere misurata sul corpo umano. Per questo non mi piacciono i grattacieli, sono edilizia, non architettura. E’ questa una distinzione cui tengo molto. Sono tutti uguali, in qualunque parte del mondo. Per me l’architetto è chi tiene conto dei percorsi, dell’orientamento, dell’uso delle stanze. E’ come nei grandi templi (…) dove era massima questa cura tra l’uso dell’interno e dell’esterno. Il tempio è la casa di Dio, deve comunicare intensità”.
Con l’aria triste, il baffo asburgico e il suo perenne e realistico e modesto “forse mi sbaglio!”, arrivò a superare i 90 anni morendo a Milano alla fine del 2007.
Amerino Griffini