Il “fondamentalismo delle matite appuntite”
Si riporta un’intervista ad ALAIN DE BENOIST sui recenti fatti parigini, comparsa il 10 gennaio, sul sito Boulevard Voltaire. La stessa intervista, tradotta da Marco Tarchi, verrà pubblicata nell’imminente numero 322 di “DIORAMA” insieme a numerose altre dello stesso autore. Prosegue così il confronto di opinioni a seguito del precedente intervento a firma di Ivan Guidone, già pubblicato su questo web. ……… il dibattito è aperto.
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Charlie Hebdo, da giornale liberale-libertario, era diventato un portavoce dell’ideologia dominante. Al di là della legittima indignazione per il massacro perpetrato nella sede di “Charlie Hebdo”, quali lezioni si possono trarre da questo avvenimento? Bisogna vedervi, come fanno certi media, la prova che è stata dichiarata una “guerra totale” tra islam e cristianità, Oriente e Occidente?
La maniera abominevole in cui sono stati massacrati i collaboratori di «Charlie Hebdo» fa rivoltare lo stomaco, è ovvio. E quel che è più difficile quando l’emozione sommerge ogni cosa è conservare l’uso della ragione. E tuttavia ciò che è maggiormente necessario è imporsi la distanza interiore che consente di analizzare l’evento e di trarne delle lezioni. Di fronte a che cosa ci troviamo? Di fronte a una nuova forma di terrorismo, inaugurata in Francia dai casi di Khaled Kelkal e Mohammed Merah. Essa si distingue dalle precedenti ondate di terrorismo (tipo 11 settembre o attentato di Madrid), che erano concepite e messe in atto da basi estere attraverso grandi reti internazionali organizzate. Qui abbiamo invece a che fare con attentati concepiti in Francia da individui che si sono radicalizzati in maniera più o meno autonoma. Costoro sono passati progressivamente dalla delinquenza al jihadismo, ma sono il più delle volte soggetti che sono stati bocciati dal jihad. Hanno un grande sangue freddo, sanno utilizzare le armi di cui dispongono e sono completamente indifferenti alla via degli altri. Nel contempo sono dei dilettanti, dei pazzoidi, come questi fratelli Kouachi che decidono di andare a decimare una redazione “per vendicare il profeta” ma iniziano con lo sbagliare indirizzo, lasciano tracce dappertutto, non prevedono alcuna strategia di ripiegamento e dimenticano la carta d’identità nella macchina che hanno appena abbandonato. Sono dei pazzoidi imprevedibili, il che li rende ancor più pericolosi. Bisogna anche stare attenti al contagio mimetico. La stessa logica imitativa che ha suscitato la comunione emotiva dei raduni spontanei a favore di “Charlie Hebdo” non mancherà di ispirare i potenziali emuli di Merah, dei fratelli Kouachi o di Amedy Coulibaly. Si immagini l’ondata di isteria sociale che la ripetizione a brevi intervalli di attentati come quello a cui abbiamo appena assistito potrebbe provocare. In un clima del genere, tutte le manipolazioni diventano possibili. Abbiamo visto già qualcosa del genere in passato: si chiama “strategia della tensione”. Si deve ovviamente fare la guerra a coloro che la fanno a noi, e farla con tutti i mezzi necessari. Ma parlare di “guerra totale” non vuol dire granché. I jihadisti (o i lanciatori di fatwa) sono altrettanto rappresentativi dell’islam quanto il Ku Klux Klan è rappresentativo della cristianità. Dopo tutto, non sono stati i jihadisti ma gli occidentali ad agitare per primi lo spettro dello “scontro tra le civiltà”, dopo essersi impegnati a destabilizzare l’intero Medio Oriente e ad eliminare tutti i capi di Stato arabo-musulmani che, da Saddam Hussein a Gheddafi, avevano eretto dighe contro l’islamismo radicale. La necessità di lottare contro le conseguenze immediate non deve far dimenticare la riflessione sulle cause prime.
Non è la prima volta che un giornale viene attaccato in modo violento. Vengono alla mente in particolare gli attentati contro “Minute” o “Le Choc du mois”, sia pure senza che vi si siano registrate vittime. Tuttavia, in occasione di quelle violenze, che avrebbero potuto rivelarsi mortali, si era registrata una minore empatia mediatica. Siamo sempre alla stessa storia dei due pesi, due misure?
Diciamo che, se invece di prendersela con la redazione di “Charlie Hebdo”, dei terroristi avessero decimato quella di “Valeurs actuelles” [settimanale di destra moderata], si può fortemente scommettere che le reazioni non sarebbero state le stesse. Non si sarebbero visti fiorire i “Je suis Valeurs” come si sono visti fiorire i “Je suis Charlie” (dal verbo “essere”, suppongo, non dal verbo “seguire” – ndt: la prima persona singolare dei due verbi in francese è identica). La classe politica di governo non avrebbe certamente parlato di “unione nazionale” (tema mistificante per eccellenza, peraltro, perché una “unione” di questo tipo avvantaggia sempre coloro che detengono il potere e vogliono beneficiare di un consenso). Contrariamente al suo predecessore “Hara Kiri”, “Charlie Hebdo”, giornale liberale-libertario, era diventato uno degli organi della ideologia dominante. La quale sa riconoscere chi sta dalla sua parte.
Ci viene detto, unanimemente, che “Charlie Hebdo” aveva fatto della libertà di espressione il proprio cavallo di battaglia. Ma cosa si dovrebbe dire delle campagne di delazione che hanno incitato a mettere lo scrittore Richard Millet alla porta del comitato di lettura delle edizioni Gallimard, a far licenziare Fabrice Le Quintrec da “France Inter” o Robert Ménard e Éric Zemmour da i>Télé? La libertà di espressione può avere dei limiti?
Basta con l’ipocrisia. Il 26 aprile 1999, i dirigenti di “Charlie Hebdo” avevano portato al ministero dell’Interno una serie di casse contenenti 173.700 firme di persone che richiedevano la messa fuorilegge del Front national. In materia di difesa della libertà di espressione, si è fatto di meglio! Ancora poche settimane fa, Manuel Valls ha dichiarato che “il libro di Zemmour non merita di essere letto”, mentre un altro ministro ha chiesto, senza vergognarsene, che “i palcoscenici televisivi e le colonne dei giornali cessino di ospitare opinioni di questo tipo”. E non riparliamo neanche del caso Dieudonné. Ciò detto, siamo giusti: fra coloro che celebrano la libertà di espressione quando si tratta di Zemmour, purtroppo ce ne sono molto pochi che sarebbero disposti a reclamarla per i loro avversari. Ora, “la libertà è sempre la libertà di chi la pensa diversamente”, come ha scritto Rosa Luxemburg, il che vuol dire che si è meritevoli nel difenderla solo quando si è pronti a farne beneficiare anche coloro che si esecrano. Ma è proprio questo quel che rifiuta l’ideologia dominante, anche negli Stati Uniti, dove il primo emendamento consente a chiunque di dire o scrivere ciò che vuole ma le opinioni non conformiste sono ancor più emarginate di quanto lo sono in Francia. Così come il diritto al lavoro non ha mai fornito un posto di lavoro, il diritto di parlare non garantisce la possibilità di essere ascoltati!
Alain de BENOIST
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