Il “significato” di una data
8 settembre 1943
Otto settembre 1943, ore 19, 42, dal microfono dell’EIAR il Capo del Governo, maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, diffuse il proclama dell’armistizio con gli angloamericani, firmato a Cassibile il 3 settembre. Era stato preceduto dal proclama del generale americano Dwight D. Eisenhower diffuso da Radio Algeri alle ore 18, 30.
Il Proclama: “Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta e stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza“.
Poche parole, ma gravide di tragiche conseguenze nella storia d’Italia. Ne seguirono: la fuga da Roma del Re e del capo del governo con il principe ereditario, ministri e generali per rifugiarsi nel sud occupato dagli anglo-americani (alba del 9 settembre) con la conseguente mancata difesa della capitale, subito occupata dai tedeschi, la disgregazione dell’esercito italiano, il disfacimento dello Stato, l’esplosione della guerra civile e il disorientamento e la miseria della popolazione. Soltanto il 13 ottobre 1943 il Regno d’Italia (limitato alle regioni occupate dai nuovi alleati anglo-americani) dichiarò guerra alla Germania.
Gli antefatti immediati che prepararono questo dramma dello Stato sabaudo, nato appena 72 anni prima, sono: sbarco degli anglo-americani in Sicilia (7-10 luglio 1943), bombardamento di Roma-San Lorenzo (19 luglio), arresto del capo del governo Benito Mussolini (25 luglio, ore 17), nomina del nuovo capo del governo nella persona di Pietro Badoglio (mattina del 25 luglio); riunione del nuovo governo (28 luglio). Lo stesso giorno, Badoglio inviava una lettera ad Hitler, ribadendo che, per l’Italia, la guerra continuava nello stesso spirito dell’alleanza con la Germania.
Gli storici s’interrogano ancora oggi sul comportamento del Re e del governo durante i 43 giorni che trascorsero tra la fine del governo del Duce e la proclamazione dell’armistizio con gli angloamericani. Perché tanto attendismo da parte delle autorità, quando era evidente che la fine del governo Mussolini preludeva allo sganciamento dagli alleati tedeschi, alla sospensione della guerra contro le Nazioni Unite e, contemporaneamente, all’organizzazione della difesa contro la prevedibile reazione tedesca?
Un’operazione che andava fatta subito dopo il 25 luglio. Ma anche il Re e gli altri con lui, dovettero pensare – immagino – che la fuga dal nemico per rifugiarsi sotto la protezione dei nuovi amici, fosse l’espediente migliore per salvare la Patria.
L’Italia divisa – Il risultato di tutto questo, comunque, fu il disfacimento dello Stato, ma non della Patria. La guerra civile che ne seguì fu combattuta da ambo le parti nel nome di opposte concezioni della Patria. Coloro che si schierarono con i nuovi alleati si mantennero fedeli al giuramento fatto al Re per il “bene inseparabile del Re e della Patria”: “Giuro di essere fedele a Sua Maestà il Re ed ai suoi Reali Successori, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato e di adempiere tutti i doveri del mio Stato, con il solo scopo del bene inseparabile del Re e della Patria”. Gli altri giurarono fedeltà alla R.S.I. “dinanzi a Dio ed ai caduti per l’unita, l’indipendenza e l’avvenire della Patria”: “Giuro di servire e difendere la Repubblica Sociale Italiana nelle sue istituzioni e nelle sue leggi, nel suo onore e nel suo territorio, in pace e in guerra, fino al sacrificio supremo. Lo giuro dinanzi a Dio ed ai caduti per l’unità, l’indipendenza e l’avvenire della Patria”.
Alcuni, a motivo del giuramento sabaudo che considerava “inseparabile” il “bene del Re e della Patria”, seguirono la scelta del Re Vittorio Emanuele III, altri, separando il Re dalla Patria, giurarono di lottare per “l’unità, l’indipendenza e l’avvenire della Patria” schierandosi con la R.S.I. C’è un riferimento comune, scritto sempre con la maiuscola: Patria. Si sentivano tutti italiani, sia pure sotto tutela. E furono massacri dall’una e dall’altra parte, gli uni foraggiati dai nuovi alleati in una Stato sotto tutela degli anglo-americani, gli altri organizzati nell’effimera R.S.I. sotto tutela dei tedeschi, che l’avevano voluta. Tutta gente che, fino a quel momento aveva combattuto contro lo stesso nemico, divenuto improvvisamente amico. Quei giorni furono chiamati “giorni della vergogna”.
La fretta e la segretezza con la quale la fuga fu realizzata comportarono l’assenza di ogni ordine e disposizione alle truppe e agli apparati dello Stato utile a fronteggiare le conseguenze dell’Armistizio, pregiudicando gravemente l’esistenza stessa di questi nei convulsi eventi bellici delle 72 ore successive. L’ex alleato poté agevolmente e in breve tempo impadronirsi di oltre due terzi del territorio. Seguirono 20 mesi di guerra in una Patria sottoposta all’occupazione di due eserciti stranieri, con alcuni italiani collaboranti con l’una o l’altra parte e con un popolo vittima di tutti e un territorio devastato.
La festa – A cominciare dal 1946, il 25 aprile 1946 è la data simbolica istituzionale della “Festa della liberazione”. Con la “Festa della Repubblica” del 2 giugno è ricordata la fine della Monarchia in Italia e l’inizio della Repubblica, scelta con il referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946. Due feste di tutti gli italiani: di quelli che giurarono per il Re e per la Patria e di quelli che giurarono per la RSI e per la Patria. Quelli hanno perduto il Re, questi la RSI. E’ rimasta la Patria: l’Italia.
“Sentiamoci tutti figli di quell’otto settembre 1943”- L’11 settembre 1993 l’ex Generale dei Granatieri di Sadegna, Gianfranco Chiti, reduce dalle campagne militari sui fronti sloveno, greco albanese e russo, militante nella R.S.I., Comandante e Istruttore delle truppe Somale per conto dell’ONU e delle Scuole di guerra in Italia fino al 1978 e poi frate cappuccino, sul sagrato della chiesa romana di Santa Croce in Gerusalemme, durante la Messa di Commemorazione dei Caduti, da lui celebrata, pronunciò un coraggioso discorso sulla rconciliazione nazionale, che fece scalpore, di cui riporto qualche stralcio.
Questo rinnovato incontro fra di noi [Granatieri di Sardegna], denso di memorie, di poesia, di amicizia, torni per noi e per i nostri cari di conforto e di sprone ad essere sempre migliori. Questo ritrovarsi tuttavia, non è solo per rievocare un antico cameratismo, non è solo celebrazione come storia della generazione di ieri per quella di domani, come commosso ricordo del passato e auspicio per l’avvenire come atto di fede per le nostre Bandiere, perché nulla di quanto dato dai Granatieri in efficienza e in servizio alla Patria vada perduto, ma soprattutto per rendere omaggio ai nostri Caduti, con in testa quelli della Difesa di Roma a Porta San Paolo[…][1]. Oggi, nel cinquantesimo anniversario si riaccende il ricordo del loro sacrificio e la passione di quei giorni torna a commuovere il cuore di chi li ha vissuti, anche se gli anni trascorsi sono tanti e i giovani di allora hanno i capelli bianchi.
8 settembre 1943: è la data del crollo di un regno, del crollo di uno Stato. Fino a quel giorno dalle pianure russe al cuore dell’Africa, dall’Atlantico all’Oceano Indiano, gli italiani avevano combattuto, forti dell’autorità dello Stato, con valore, disciplina, obbedienza. Dopo quella data non ci fu luogo della penisola che non fosse conteso, non fosse bagnato da scontri frontali, percorso da eserciti stranieri e presto la tragedia della guerra civile, ma sopra questa guerra civile si ergeva la dolente maestà dell’unico popolo italiano.
E’ una data cui dobbiamo instancabilmente rifarci sentendoci tutti figli di quell’8 settembre del ’43. Più che irreparabile Caporetto, è l’inizio di un travaglio formativo dell‘Italia Nuova, nella quale abbondano sacrificio e dolore, ma anche una vivace e tenace speranza di far crescere e ricomporre la nazione. Vada la nostra riconoscenza ai Caduti di porta San Paolo, Caduti per obbedire agli ordini ricevuti, così come si addice al soldato che ha prestato giuramento.
[…] Per quanto riguarda il dopo 8 settembre, la Patria e i suoi Caduti che ricordiamo, ci esortano soprattutto a riunire i Caduti delle due parti della guerra civile: non più Caduti da onorare e Caduti da dimenticare, per gli uni e per gli altri si riconosca la dedizione alla Patria. Tutti, da una parte e dall’altra la servirono con dignità ed onore e nessuno operò per profitto. Via questo muro tremendo, per la pacificazione concreta fra gli italiani, a gloria di Dio, a splendore della Madre comune, per la pace di Cristo Signore ai Caduti nell’eternità e per la pace di Cristo Signore per noi nel tempo. Se ciò avverrà, la seconda guerra mondiale, per gli italiani, sarà veramente conclusa e inizierà l’era vera dell’unità nazionale, dell’Italia nuova. Unità, in cui ognuno è ricchezza per l’altro; per averla occorre il coraggio di ripudiare tutto ciò che ci divide, altrimenti dividiamo Dio il corpo di Cristo.
[…] Granatieri, siate forti, fermi, vigili nella vostra trincea, senza armi e spirito di vendetta, ma anche senza ipocrisia e viltà e senza compromessi. Siate forti della vostra onesta coscienza, delle vostre virtù, della vostra dignità di uomini liberi, forti nell’’onore di Soldati, mai tradito, perché abbiamo ancora una terra da amare e servire, quella terra che il linguaggio di moda chiama Paese, ma che noi Granatieri chiamiamo sempre Patria; abbiamo un patrimonio sacro da difendere, che è la nostra civiltà latina e cristiana e vogliamo marciare sotto una sola Bandiera, all’ombra della quale abbiano combattuto e sono saliti nel cielo della gloria i nostri Caduti: quella Bandiera, quella sola, si chiama Italia.[…]
Padre Rinaldo CORDOVANI
[1] La battaglia di Porta San Paolo si ebbero 597 caduti, di cui 414 militari e 183 civili. E’ il primo evento della Resistenza italiana. Tra i combattenti di parte italiana era presente anche il Tenente Cappellano Mascioli Giuseppe, cioè il frate cappuccino padre Leonardo Maria da Roma (1906-1975), il quale fu decorato con la medaglia d’argento al valor militare con la seguente motivazione: “Volontariamente, a bordo di una autoambulanza militare, raggiungeva alcuni reparti che opponevano tenace resistenza alle truppe tedesche. Sulla linea del fuoco incurante del pericolo, prestava ai feriti i conforti della religione e riusciva a trasportare alcuni in località meno esposta all’offesa nemica. Colpito gravemente da proiettile alla spalla destra, continuava nella sua opera i assistenza e di sgombero, finché egli stesso veniva raccolto e trasportato all’ospedale. Esempio di altruismo e di cosciente ardimento”. Lo stesso frate ha avuto altri riconoscimenti, quali la “Croce di guerra a seguito di attività partigiana”; riconosciuto come “Partigiano combattente ferito”; “Autorizzato a fregiarsi del “Distintivo della Guerra di Liberazione” e ad apporre al nastrino n. due stellette per gli anni 1943-1944.