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LAZIO: per uno sviluppo partecipato

LAZIO  

 

MODELLI PER UN FEDERALISMO – PARTECIPATO

Temi per un programma di legislatura

 Sviluppo delle professioni – Tutela per i cittadini

INTRODUZIONE

Sviluppo delle professioni

Uno dei fenomeni più evidenti dell’attuale quadro socio-economico è certamente la crisi economica, culturale e sociale della classe media;

La classe media è storicamente l’elemento di stabilità degli assetti istituzionali e politici partecipativi da un lato e dall’altro, consentendo una rapida circolazione dei cittadini, contribuisce fortemente al progresso della società, con l’ottimizzazione dei talenti ed il contenimento dei contrasti di interesse fra gruppi sociali.

La crisi della classe media è quindi di contro il segnale più grave dello scollamento di una società intera della sua perdita di dinamicità e capacità evolutiva.

Lo stesso Presidente Obama ha dichiarato: “La ripresa non è nella crescita più o meno grande del PIL. Il vero progresso dell’economia americana si misurerà con il ritorno alla stabilità per la nostra classe media”.

La società bipolare, prodotta dalla tecnologia e dal bisogno di standard e di semplificazione dell’economia globale, ha ormai strutturato la società in due classi, divise da un “fossato” reddituale e culturale.

Il proletariato è ormai scomparso, ridotto alla quota residuale, dei lumpen di spartachista memoria; quella che si definiva classe media tende invece a rappresentare una quota di oltre il 60% dell’intera società.

Le distanze fra le classi non sembra poter essere più coperta dalla omogeneità formale indotta dal consumismo anche culturale.

La classe media sembra infatti perdere di coerenza frazionandosi in ceti competitivi.

Occorre infatti tenere presente che la classe media è costituita, a differenza della borghesia e del proletariato (per quello che ne resta), da un insieme di gruppi non sempre coesi.

Allo storico ceto medio infatti formato da lavoratori autonomi, professionisti, manager privati, ecc; infatti si sono aggiunte: negli anni ’60, la burocrazia parassitaria, dagli anni ’70, quella parte della classe operaia che è “andata in paradiso” e dagli anni ’90, quella parte della borghesia che è invece scesa all’inferno.

La crisi è non solo economica, ma è soprattutto culturale, dal momento che nella società delle conoscenza è evidentemente proprio il lavoro intellettuale a subire più forte la crisi.

Sarà quindi proprio sull’area della conoscenza che si giocherà la partita del rilancio dei ceti medi e che saranno proprio le professioni ad essere la forza trainante.

Da relativi al concorso per l’accesso in Magistratura, che hanno comunque più ampio riscontro, comprovano che soltanto 21 laureati su 100 raggiungono un sufficiente rapporto di comprensione dei testi e di resa scritta del pensiero.

Quanto alla coscienza del proprio ruolo alcuni dati rilevati nel 1997, evidenziano che la scelta professionale, almeno nell’Avvocatura, aveva per oltre il 40% motivazioni economiche o di “parcheggio”; mentre risulta che soltanto il 6% c/a riteneva che l’esercizio della professione forense conferisse uno status sociale elevato.

In verità l’abnorme afflusso nell’area delle professioni negli ultimi anni indica soltanto una diversa tipologia di precariato permanente.

Quanto alla qualità l’accesso è certamente segnata da un deficit di preparazione universitaria, mentre la crisi reddituale finisce per condizionare negativamente la formazione; malgrado i lodevoli sforzi di Ordini ed Associazioni non sempre però corrispondenti ad effettivi criteri di qualità e non uniformemente e sufficientemente disponibili sul territorio regionale.

A riprova i dati statistici evidenziano la assoluta insufficienza della spesa dei professionisti legali per l’acquisto dei loro strumenti di lavoro; tra i 50 ed i 350 euro annuo, e l’inadeguatezza della qualità e quantità della formazione.

Da un punto di vista economico vi sono più dati disponibili, ma assolutamente sconfortanti.

Nel 1991 era ritenuta un livello medio-basso una spesa corrispondente a 14.480,00 fruita dal 29,01% delle famiglie cui poteva sommarsi un 26% delle famiglie con una spesa annua di € 20.240,00.

I redditi accertati per gli Avvocati nel 2007 si attestano nel Lazio a 63.500 netti di imposte. Ma in realtà la maggioranza degli Avvocati fra i 25 ed i 40 anni si attesta di media intorno ai 20.000 euro netti all’anno, con ampie oscillazioni di genere e territorio; rappresentando oltre il 50% dei professionisti. Ma, architetti, psicologi, ingegneri, non si trovano in situazioni migliori e globalmente su tali valori reddituali si attestano tutti i ceti professionali.

Basta anche una sommaria lettura dei dati Censis, Alma Mater, ecc..

Lo strumento istituzionale più idoneo ad intervenire sui ceti professionali sembra essere la Regione anche in virtù del potere normativo concorrente assegnatole dal nuovo art. 117 Cost.; e con la ricognizione effettuata dalla cosiddetta legge La Loggia.

Non sfugge quindi che risulterà vincente sul piano del consenso solo il progetto politico che saprà percepire le cause della crisi dei ceti medi e proporre e realizzare riforme efficienti.

Le regioni pertanto dovranno prendere concrete iniziative di sostegno all’accesso non solo con un sostegno ai redditi, ma soprattutto con un concreto aiuto in fase di organizzazione dell’attività professionale; in particolare favorendo l’esercizio associato e interprofessionale, ma soprattutto facendosi carico, unitamente agli Ordini ed alle Associazioni dei processi di formazione, anche quella permanente. Tramite la formazione eccitare poi la specializzazione, creando occasioni di prestazione professionale, verso il pubblico e privato, sganciate però dagli ormai insufficienti modelli storici e vocati invece ad una prestazione di servizi verso il pubblico e privato rispondenti alle esigenze del territorio e dei nuovi e vecchi diritti dei quali i cittadini richiedono tutela o riconoscimento.

 

§1. Formazione

La formazione e l’ambito delle professioni, sia regolamentate che non, sono materia di legislazione concorrente tra lo Stato e le Regioni ai sensi dell’art. 117, 3 co. Cost..

La formazione di cui qui ci si occupa non è quella relativa alle qualifiche del lavoro subordinato, dell’artigianato o delle arti e mestieri; ma quella relativa al lavoro autonomo intellettuale e delle professioni.

La formazione dovrà essere destinata non solo all’accesso alle singole professioni, auspicabilmente concorrendo a superare i deficit formativi dell’iter scolastico, ma anche a mantenere ed incrementare tramite l’aggiornamento i livelli qualitativi della prestazione durante tutta la vita del professionista; e con la specializzazione ad aumentarne le capacità competitive sul mercato interno ed internazionale.

La competenza regionale nell’ambito delle professioni trova la sua limitazione di campo nel principio di concorrenza con lo Stato, nella ricognizione di principi, nella cosiddetta Legge La Loggia (n. 131 del 05/06/03).

Tuttavia nell’ambito dei principi fondamentali quali determinati dallo Stato, grande è la capacità di intervento della Regione.

La formazione deve ovviamente rispondere alle necessità della domanda di servizi professionali del territorio, senza però che questa ponga in secondo piano, specie nella fase della formazione per l’accesso alle professioni, la preparazione di base ed il suo costante aggiornamento.

In difetto si produrranno certamente degli iper specialisti, incapaci però di adattarsi al cambiamento, alle variazioni della domanda dei servizi professionali, con insufficiente  capacità di identificare le problematiche del cliente al di là del ristretto campo di competenza.

La specializzazione e gli approfondimenti debbono costituire in sostanza, una fase logicamente e temporalmente successiva.

Ben si comprende come nel momento iniziale dell’attività professionale con medie reddituali nette di 10.000/18.000 euro l’anno, una formazione di qualità per i giovani professionisti è assolutamente improponibile oscillando i costi dei master tra i 4.000 e gli 8.000 €uro ed oltre.

Lo stesso formarsi di una biblioteca sia pure in forma telematica può costituire in tale fase un costo rilevante.

Il problema della formazione non è solo un problema dei giovani professionisti, ma è il problema della qualità dei servizi professionali e quindi un fenomeno che colpisce il cittadino fruitore, di qui la necessità del ruolo della Regione.

I livelli di eccellenza poi svolgono un’attività attrattiva di investimento sul territorio con evidenti ricadute socioeconomiche in termini di occupazione, investimento convegnistico ecc..

Ovviamente una politica della formazione non può prescindere da una stretta interazione e collaborazione tra la Regione, gli Ordini e le Associazioni professionali e gli Enti esponenziali territoriali.

Occorrerà quindi investire non solo su scuole, formazione di docenti, costi e sussidi didattici, in quanto attività diretta, ma anche, con idoneo organismo, alla creazione di occasioni di incontro e coordinamento.

§2. Sostegno alle professioni

È evidente la necessità di un sostegno economico alle professioni sia al momento dell’accesso, sia nei momenti di crisi, che nelle fasi di ristrutturazione.

Ampie sono le possibilità di intervento anche se occorre evitare le esperienze infruttuose di aiuti a pioggia.

Certamente i prestiti d’onore o a basso tasso sono un opzione, ma meglio se mirati alla costituzione, nelle forme di legge, di associazioni professionali.

Altre possibilità sono, di concerto con i Comuni, la creazione di housing delle professioni da locare ai giovani professionisti a canone concordato o favorire la locazione diminuendo l’ICI per tal tipo di affitto.

Anche un intervento sulla quota regionale dell’IRAP potrebbe avere un benefico effetto.

Si può inoltre pensare a munire i giovani professionisti di sistemi informatici a basso costo collegati con banche dati specializzate e gestite dalla Regione e con costi di accesso e consumo estremamente contenuti.

È auspicabile con l’uso di tali strumenti la “spalmatura” delle professioni sul territorio per migliorare i servizi professionali ed il rapporto fiduciario con il territorio che è il miglior controllo di qualità del prodotto.

§3. Associazioni e società professionali e interprofessionali

È certamente fuori dalla competenza delle Regioni, l’istituzione di tipi societari e tuttavia il problema dell’associazionismo non può rimanere estraneo alla politica regionale.

Una mirata politica dell’associazionismo è necessaria sotto più profili.

Il favorirlo infatti con strumenti di incentivazione è certamente il miglior mezzo per eliminare quella vasta area di frizione tra le professioni che è rappresentata dalla riserva o meno di consulenza, poiché tutte le professionalità finirebbero per collaborare all’interno di un unico soggetto.

L’associazionismo interprofessionale inoltre consente di rispondere a specifiche esigenze di mercato; come ad esempio la procedura di liquidazione o strutturazione di realtà imprenditoriali di notevole consistenza nella quale è intuitivamente necessaria la parte legale, quella economico contabile, la consulenza del lavoro e le capacità tecniche in relazione alle produzioni dell’impresa.

Un organismo interprofessionale stabile può porsi inoltre più vantaggiosamente nei rapporti contrattuali con la domanda complessa di servizi professionali.

Anche nell’ambito delle singole professioni l’associazionismo rappresenta un evidente vantaggio sia in termini di mercato, sia in termini di qualità ed esaustività dell’offerta.

Ma vi sono altre prospettive all’esercizio associato delle professioni, che vanno dalla gestione della cause seriali, ad accordi con enti locali per la collaborazione nella gestione delle attività amministrative, con vantaggio specie dei piccoli Comuni.

Si può incentivare inoltre, su una presenza territoriale articolata; quelli che potremmo chiamare “i poliambulatori del diritto”.

L’aree di riferimento dovrebbero essere quelle fasce di difficoltà socio-economica che per motivi reddituali non possono accedere al patrocinio dei non abbienti, ma che hanno comunque difficoltà ad assicurarsi servizi professionali di qualità.

Tali strutture consentirebbero il controllo deontologico degli Ordini, una sufficiente stabilità ed un buon livello qualitativo, non sempre assicurati da benemerite, ma estemporanee iniziative; a volte oscurate da più o meno mascherata captazione di consenso partitico.

E quindi, senza voler ripetere nel dettaglio quanto già detto, saranno necessari degli interventi di sostegno, non a pioggia, ma nell’ambito di una mirata politica, che abbia per perno la qualità dei servizi professionali offerti.

Tutela per i cittadini

La crisi della giustizia pubblica statale sotto il profilo organizzativo e purtroppo anche quello qualitativo è dato ormai assiomatico.

Dalla L. 353/90 fino alla recentissima L. 69/09 si sono succedute almeno 7 leggi di riforma del processo; mentre si è perso il conto delle modifiche legislative e giurisprudenziali del processo penale, senza che questa intensa attività normativa abbia portato al minimo risultato.

A subire i maggiori danni è stata certamente la Giustizia civile depauperata di uomini e mezzi dalla prevalenza data dal processo penale.

Il sistema Giustizia, sempre più condizionato da una pura visione economicistica, ma paradossalmente a risorse economiche invariate; la cosiddetta Giustizia a costo zero; non è stato in grado di rispondere efficacemente all’aumentata domanda di tutela per nuovi interessi e diritti prodotti dallo sviluppo, finché c’è stato, della Società.

Non è servita l’eliminazione della più parte dei Giudici collegiali.

Il Pretore eliminato all’insegna del “todos Caballeros” ha solo prodotto la figura del GdP; oberato da una miriade di cause “bagatellare” ma non troppo; senza le necessarie semplificazioni procedurali né le risorse umane e strumentali, né i necessari livelli qualitativi.

Fidando nel potere della parola, si è ritenuto di poter risolvere la situazione con la modifica dell’art. 111 Cost. che oggi viene sostanzialmente interpretato ed applicato in relazione del principio di ragionevole durata.

Di qui una serie di riforme che hanno prodotto sostanzialmente, almeno nel settore civile, che è quello che più importa ai cittadini, un processo imperniato sulle decadenze e sulla forma scritta.

Sostanza: il giusto processo ha ucciso il processo giusto, quale delineato negli anni 60/80 dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo.

Anche gli ultimi tentativi non sembrano portare buoni frutti stante l’inadeguatezza del modello adottato delle class action.

Anche seri dubbi di efficacia gravano sul recente decreto legislativo in materia di conciliazione, sia per la mancanza di visione sistematica (non risolvono il problema della paragiurisdizione, non quello dell’azione civile nel processo penale), sia per i rapporti tra fase conciliativa e processo che sembrano in contrasto con gli indirizzi comunitari, non assicurando sufficienti libertà e segretezza. E tuttavia proprio una cultura di conciliazione e della mediazione sembrano uno strumento più adatto allo stato della legislazione ad assicurare una maggiore effettività al sistema di tutele che la costituzione assegna alla Repubblica, come compito ineludibile.

Il vizio di fondo del sistema attuale è il prevalere della visione della Giustizia come potere su l’idea della Giustizia come servizio.

Valutando quindi il sistema delle tutele in ottica di servizio emerge sempre più chiaramente il ruolo della Regione almeno nell’amministrazione della Giustizia e dei percorsi alternativi della tutela del cittadino, senza giungere alla configurazione di una vera e propria giurisdizione federale allo stato costituzionalmente improponibile.

La Regione deve e può ispirare la sua azione non al modello di Giustizia come potere, ma piuttosto a quello della Giustizia come servizio.

§1. Giustizia di Pace

L’art. 116 Cost. consente l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario: “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” per quanto attiene l’organizzazione della Giustizia di pace.

È questa una opportunità che la Regione Lazio può e deve cogliere per realizzare al meglio la Giustizia di prossimità; quella appunto più vicina alle esigenze ai cittadini ed alle loro esigenze di tutela, sia in sede civile che penale.

Un contributo concreto ad una Giustizia più tempestiva ed efficiente, come imposto dal giusto processo ex art. 111 Cost..

È fatto notorio che specie nei centri urbani più grandi la Giustizia di pace presenta grandissime carenze funzionali per quello che attiene, in particolare l’edilizia giudiziaria, l’informatizzazione, i mezzi strumentali ed il personale amministrativo.

Le Regioni a statuto speciale hanno già disegnato interessanti modelli e con ottimi risultati.

La Regione quindi potrebbe utilmente intervenire nella formazione dei GdP e del personale amministrativo, nell’assistenza ai Comuni minori sotto il profilo strumentale usando le nuove tecnologie e nei Comuni maggiori realizzando delle vere e proprie cittadelle con locali idonei, strutture di servizio per cittadini e professionisti, parcheggi, ecc….

Ulteriore vantaggio per la collettività sarebbe quello di razionalizzare e semplificare gli interventi economici nel settore oggi attribuiti ai Comuni, allo Stato e parzialmente già alla Regione (cfr scheda Consigli Giudiziari).

§2. Conciliazione e mediazione

Nell’ambito di un articolato sistema di tutele la Regione può e deve concorrere ad offrire tale ulteriore servizio alla luce delle possibilità oggi offerte dal D.lgtv 28/10/09.

Malgrado infatti la pluriennale attività della parte più sensibile dell’Avvocatura, il proliferare di una legislazione di indirizzo e l’attività delle Camere di Commercio; l’istituto della conciliazione non ha ad oggi realizzato, né lo scopo di deflazionare la giurisdizione contenziosa, né quello di porsi come un circuito alternativo di tutela, che possa assicurare non solo il ripristino dell’ordinamento tramite la decisione, ma anche il ripristino della pace nei rapporti sociali.

Il D.lgtv citato da facoltà anche agli enti pubblici di porsi come organismo di conciliazione.

L’ente pubblico Regione proprio in quanto tale potrebbe avere maggior successo rispetto ad organismi privati, poiché rispetto a questi, anche ove offrissero “garanzie di serietà ed indipendenza”; garantirebbe quella “terzietà e indipendenza” la cui dubitosità ha costituito ad oggi uno degli ostacoli maggiori all’accettazione collettiva della opzione conciliativa.

L’ente regione può articolarsi più efficacemente sul territorio, ma soprattutto può porsi come punto di riferimento per un modello di organizzazione e regolamentazione.

Potrà ovviamente intervenire efficacemente nella formazione dei conciliatori e mediatori. Di particolare delicatezza è la mediazione familiare, nella quale la Regione peraltro è già intervenuta con la L.R. 27/08; che non ha però trovato ampio consenso nelle categorie professionali interessate.

L’entrata in vigore del D.lgtv ha già prodotto, e vieppiù produrrà, la proliferazione di organismi conciliatòri di settore con la conseguente proliferazione di modelli, di regolamenti e di non sempre garantita preparazione del conciliatore persona fisica e si ripeteranno probabilmente quei deficit di terzietà e indipendenza, non tanto del singolo conciliatore quanto dell’organismo amministratore, che hanno condizionato in negativo il successo dell’istituto.

L’ente regione quindi dovrà porsi come un “modello” e realizzare, con le categorie professionali e con gli organismi di conciliazioni, delle procedure uniformi per la conciliazione ed elaborare degli standard per la formazione.

Tali considerazioni sono, con le debite precisazioni, pratiche estensibili all’istituto dell’arbitrato, che peraltro può avvalersi, dal punto di vista procedurale, delle norme contenute nel codice di procedura civile e di una consolidata elaborazione giurisprudenziale e dottrinale.

L’intervento dell’ente regione varrà poi certamente a calmierare in costi di procedura incrementando le possibilità di successo dell’istituto (cfr difesa civica).

Il sistema di conciliazione ed arbitrato consentirebbe inoltre un’occasione qualificata di lavoro per un consistente numero di professionisti.

§3. Difensore civico e conciliazione amministrativa

Inopinatamente con la finanziaria 2010 si è imposta ai Comuni la soppressione del difensore civico comunale.

Restano pertanto in vita a quanto sembra il difensore civico provinciale e soprattutto il difensore civico regionale istituito con L.R. 17/80 e con l’art. 69 del nuovo statuto regionale.

Il difensore civico regionale oltre ai poteri previsti dalla L.R. 17/80 e dallo statuto, vede gioco forza ampliata la propria funzione in relazione ai poteri sostitutivi che gli assegna la ancor vigente l’art. 136 del T.U. sulle autonomie locali.

La figura del difensore civico non ha avuto oggettivamente molto successo essendosene avvalse soltanto gli enti di maggior rilevanza territoriale.

Non mette conto ora esaminare le cause di questo sostanziale fallimento. Quello che qui occorre evidenziare è che invece di rendere efficace l’istituto, viene sottratto ai cittadini un ulteriore strumento di tutela, in particolare nel momento in cui vi era un ampio discutere sulla possibilità di assegnare al difensore civico anche una funzione conciliativa nei rapporti tra l’amministrazione ed il cittadino.

Le aree di intervento deputate sono identificabili prioritariamente nelle questioni relative al diritto di accesso agli atti (L. 241/90 art. 22 come novellata) e soprattutto in quelle aree nelle quali è prevista la partecipazione del cittadino, non solo al procedimento, ma anche alla configurazione del provvedimento amministrativo.

Di particolare rilievo sono poi i diritti art. 9 L. 241/90 dei contro interessati sia come singoli che come enti collettivi; che creano aree di conflitto tra privati e l’attività di diritto civile della P.A..

Ulteriore profilo negativo sta nella eliminazione di ampie opportunità di lavoro qualificato per professionisti, e non solo quelli portatori di preparazione giuridica, ma anche di valenze tecniche ed economiche.

È qui possibile un intervento della Regione non ovviamente oltre le proprie competenze, ma operando all’interno del sistema, istituendo delle Camere di conciliazione amministrativa o favorendone la costituzione nell’accordo tra Comuni, o gruppi omogenei di Comuni; e soggetti collettivi professionali aventi i giusti requisiti qualitativi ed etici.

È bene precisare che già la Regione Lazio è dotata di norme relative all’accesso che tendono a favorire il componimento stragiudiziale sia pure con lo strumento dell’autotutela, che vanno però implementate.

Vi sono dunque anche gli spazi per ampliare la difesa civica nell’ambito delle competenze regionali.

§4. I Consigli Giudiziari e la giustizia come amministrazione

I Consigli giudiziari sono un’articolazione dell’autogoverno della magistratura e rappresentano da un lato un timido tentativo di decentramento delle funzioni di amministrazione della giurisdizione e dall’altro il tentativo di collegare sul territorio Giustizia e società.

La loro area di competenza territoriale è il distretto di Corte d’Appello, che coincide normalmente, e certamente nel Lazio con il territorio regionale.

La L. 111/07 ha modificato gli artt. 9 e 15 del precedente D.lgtv 25/06.

Queste allo stato le competenze per materia dei Consigli, per quanto di legittimo interesse per la Regione: “d) esercitano la vigilanza sull’andamento degli uffici giudiziari del distretto. Il Consiglio giudiziario, che nell’esercizio della vigilanza rileva l’esistenza di disfunzioni nell’andamento di un ufficio, le segnale al Ministro della Giustizia; e) formulano pareri e proposte sull’organizzazione e il funzionamento degli uffici del GdP del distretto; h) formulano pareri, su richiesta del Consiglio superiore della magistratura, su materie attinenti alle competenze ad essi attribuite”.

Tuttavia si deve notare che la L. 111/07 ha eliminato dai Consigli giudiziari i due rappresentanti del Consiglio regionale della Regione di riferimento, che, al di là dell’essere Avvocati; in quanto eletti tra persone estranee al medesimo consiglio e con elevate maggioranze garantivano la rappresentanza istituzionale degli interessi della Regione.

Poiché però i Consigli giudiziari hanno competenza sulla Giustizia di pace e nell’ambito degli stessi è istituita una sezione autonoma ad essi dedicata; è evidente come tale eliminazione sia in patente contrasto non solo con gli interessi sostanziali della Regione come vedremo, ma anche con l’art. 116 Cost. che assegna alle Regioni la potestà di ampliare la propria autonomia all’organizzazione della Giustizia di pace.

In realtà l’interesse dell’ente regione nella amministrazione della Giustizia va ben al di là della giurisdizione di pace investendo l’armonico sviluppo del territorio.

Per l’ente regione non è un dato socialmente ed economicamente  irrilevante la chiusura di un Tribunale o il cambiamento della sua localizzazione; l’apertura di una sede distaccata della Corte d’Appello, la chiusura e l’apertura di un istituto di pena, ecc..

Tutte queste attività comportano lo spostamento di attività professionali, di posti di lavoro, dell’indotto economico che inevitabilmente concorre alle esigenze del servizio Giustizia; depauperando parti del territorio.

Sulle Regioni poi gravano oneri infrastrutturali di cui occorrerà valutare l’impatto sui territori e la compatibilità con la programmazione in atto; oltre l’aspetto più strettamente economico.

La Regione quindi deve svolgere comunque un ruolo politico nell’amministrazione della Giustizia, specie in questi momenti nei quali molto si discute della soppressione dei Tribunali minori e della riscrittura delle circoscrizioni giudiziarie.

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