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L’€uro non esiste:
un saggio di Giuseppe Guarino

“UN SAGGIO /VERITA’  sull’ EUROPA e sull’ EURO”

di GIUSEPPE GUARINO  con prefazione di  JAMES GALBRAITH

1.  Il prof. James Galbraith, eminente accademico dell’Università di Austin, Texas, Socio dell’Accademia dei Lincei, ha ricevuto nella traduzione inglese da un autorevole collega italiano il mio “Saggio di verità sull’Unione e sull’euro”. Il prof. Galbraith, con il quale sin qui non avevo avuto alcun contatto personale, mi ha inviato una prefazione che offre una sintesi molto precisa del saggio, qualifica le tesi da me sostenute “stupefacenti” e “sorprendenti”, conclude con una espressione icastica, “posseggono la qualità terribile della verità”.  Alla mia considerevole età (compirò il 92° anno il prossimo 15 novembre) ricevere un simile giudizio rende ancora orgogliosi.

Il “Saggio di verità sull’Unione e sull’euro” è stato nel frattempo inserito nel volumetto “Cittadini europei e crisi dell’euro”, Editoriale Scientifica, Napoli, 2014. Il prof. Galbraith non me ne vorrà se mi avvalgo del suo testo per presentare il “Saggio di verità, II”.

Preface – James K. Galbraith*

Professor Giuseppe Guarino, a distinguished legal scholar, has written an astonishing short book. His case, in one word, is that the Eurozone violates European law.  It exists, in its present form, outside the constitutional framework of the European treaties.  A situation that results from a fundamental fraud.

 An astonishing claim. –  The evidence lies in the Single European Act and the Treaty of Maastricht, the latter of which defined the objectives of Union, to be pursued by national governments:  “harmonious and balanced development of economic activities, sustainable and non-inflationary growth respecting the environment, a high degree of convergence of economic performance, a high level of employment and of social protection, the raising of the standard of living and quality of life, and economic and social cohesion and solidarity among Member States.”

Yet the actual course of the Eurozone was never to be determined by these provisions.  It was set, instead, by Regulation 1466/97,  promulgated July 7, 1997, which requires:

“the medium-term objective for the budgetary position of close to balance or in surplus and the adjustment path towards this objective for the general government surplus/deficit and the expected path of the general government debt ratio”.

Regulation 1466/97 deprives every Eurozone government of the right, supposed to have been guaranteed under the Maastricht Treaty, of exercising its sovereign powers to set economic policy.  And the result?  Two decades of depression with no end in sight.

The origins of the regulation are obscure.  The timing suggests that this obscurity may not have been accidental.  Thus a first task is for competent authority – such as possessed in principle by the European Parliament, to investigate impartially and in full.

Then the question arises: what to do about an illegal Act? The treaties are the constitution of Europe. An enactment in violation of a constitution is null and void. The Euro, brought into existence under false premises, is therefore itself a false entity.  It is not the currency called for under the Treaties. It follows that to reframe the Euro would be an affirmation, not a violation, of the treaties of European Union.

Professor Guarino’s call, therefore, is for sovereign European States to reintroduce the Euro under the generous and humane terms of the Treaties, repudiating the coup of 1997 and reclaiming their democratic rights in the economic sphere. Let Italy, Spain, Greece and Portugal take the lead in this matter, to be joined in due course by France.

It’s an astonishing proposition.  But it carries the air of necessity,  backed by an argument with the awful ring of truth.

2.   Il presente saggio, intitolato “Saggio di verità sull’Europa e sull’euro, II” integra quello antecedente, riportato in appendice.

II – L’EURO, LA NUOVA MONETA MAI NATA

 3.   Il 1.1.1999 è la data fissata dal TUE (Maastricht) per il lancio dell’euro. La tesi da me sostenuta è netta. Il lancio dell’euro, quale disciplinato dal TUE, non è mai avvenuto. Dal 1.3.1999 ha ricevuto applicazione un regolamento, il n. 1466/97, il cui contenuto è in stridente contrasto con quello dei Trattati. Dal 1.1.1999 ad oggi, cioè nell’arco di quindici anni, sono stati in vigore tre Trattati, il TUE (Maastricht) dal 1° novembre 1993, Amsterdam dal 1° maggio 1999, Lisbona dal 1° dicembre 2009. In sostituzione dei tre Trattati è stata imposta l’osservanza del regolamento 1466/97 e di due regolamenti successivi, il n. 1055/2005 ed il n. 1175/2011, nonché di un atto anomalo, il Fiscal Compact, che si autoqualifica Trattato di diritto internazionale. Al Fiscal Compact hanno fatto seguito iniziative altrettanto anomale.

4.         La disciplina del TUE, integralmente confermata dai due Trattati successivi [v. artt. 102 A, 103, 104 c) TUE; 98, 99, 104 Amsterdam; 120, 121, 126, Lisbona] era finalizzata alla crescita. L’obiettivo della crescita era affidato agli Stati membri i quali lo avrebbero realizzato avvalendosi ciascuno della propria politica economica e della capacità di indebitamento regolamentata dall’art. 104 c) TUE (104 in Amsterdam e 126 in Lisbona).

            Il regolamento 1466/97 e quelli successivi hanno introdotto un Patto di stabilità e crescita (PSC), che all’obiettivo della crescita ha sostituito il risultato della parità del bilancio a medio termine. Raggiungere la parità del bilancio è un obbligo per tutti gli Stati membri.

            Il Trattato TUE, nel protocollo n. 6 e negli artt. 109 J e K, aveva disciplinato una fase transitoria volta a realizzare “un alto grado di sostenibile convergenza tra gli Stati che sarebbero stati ammessi allo Euro. Si ammetteva un divario rispetto alla media dei tre Stati migliori, fino a due punti percentuali nel tasso di interesse a lungo termine ed 1.5 punti percentuali nel tasso di inflazione. Una volta entrati nella fase terza, gli Stati avrebbero operato, stimolati tutti dal vincolo esterno rappresentato dalla concorrenza. Ciascuno avrebbe cercato di dare il meglio di sé utilizzando al massimo i fattori peculiari, umani e naturali, presenti nella propria collettività. L’Unione sarebbe stata espressione di una collettività di circa 500 milioni di abitanti, che per popolazione si sarebbe collocata nel mondo al terzo posto dopo Cina ed India, sarebbe stata per ricchezza pari agli USA. In una previsione ragionevole, in virtù delle autonome politiche economiche e del potere di indebitamento garantito dagli artt. 102 A, 103 e 104 c) del Trattato, l’Unione avrebbe goduto di una durevole crescita tra il 2% ed il 3% del PIL.

 III – IL PSC (PATTO DI STABILITA’ E CRESCITA)

 5.         Tutto questo non si è verificato. I Trattati, nella parte attinente alla disciplina della moneta, non sono mai entrati in vigore. I valori di riferimento del 3% e del 60% del PIL non hanno mai avuto occasione di applicarsi. La norma da rispettare sarebbe stata comunque l’art. 104 c) TUE. Ma anche questo articolo, alla pari del 104 di Amsterdam e del 126 di Lisbona, non è stato applicato. In sostituzione del Trattato è stato imposto il PSC introdotto dal regolamento 1466/97, al quale hanno fatto seguito i due regolamenti 1055/2005 e 1175/2011 e poi il c.d. Fiscal Compact.

Il PSC ha imposto agli Stati membri, con efficacia retroattiva, un obbligo di carattere generale, la parità del bilancio a medio termine. I divari al 1.1.1999 rispetto alla parità del bilancio erano stati accertati, per l’ammissione all’euro, con lo scrutinio effettuato il 3 maggio 1998. La generalità degli Stati presentava un bilancio non in attivo, divergente dal pareggio in varie misure. Lo sviluppo è frutto del concorso di due elementi: la presenza di fattori produttivi inutilizzati o sottoutilizzati e la disponibilità di risorse sufficienti per valorizzarli. Gli Stati che alla data del 1.1.1999 non avevano il bilancio in pareggio potevano contare tutti sulla presenza di fattori inutilizzati. Quali e quanti fossero si sarebbe potuto dedurre dal numero già in essere e di quelli probabili nel futuro, dei disoccupati, delle imprese costrette a chiudere i battenti, delle strutture private o pubbliche rimaste incomplete, quindi parzialmente inutilizzate, e così via. Il PSC avrebbe comportato il divieto di indebitamento fino a quando il bilancio non fosse stato in pareggio o fino a quando non fossero sopravvenuti fattori produttivi imprevisti. Quindi non vi sarebbe stato alcun incontro tra fattori e risorse. Il PSC non avrebbe prodotto sviluppo.

Lo avrebbero comprovato le statistiche relative all’andamento del PIL nei tre principali Paesi dell’eurozona relative al periodo 1999-2009. Nella graduatoria in tale decennio dei Paesi del mondo con il più basso tasso di crescita (Pocket World in Figures, edito dall’Economist, edizione 2012, pag. 30) l’Italia figura al 4° posto (media dello 0.4%), la Germania all’8° posto (media dello 0.8%), la Francia al 17° posto (media dell’1.4%). Nello stesso decennio, stessa fonte, pag. 46, nella graduatoria dei Paesi con la più bassa crescita nel prodotto dell’industria, l’Italia figura al 4° posto con la media del -1.7%, la Germania all’8° con la media del -1.2%, la Francia al 13° con la media dello 0.5%.

            Il tasso medio di crescita del PIL era stato per Francia, Germania, Italia nei quattro decenni dal 1950 al 1990 (elaborazione su dati omogeneizzati Maddison), rispettivamente del 3.86%, del 4.05% e del 4.36%; nei sei anni anteriori al 1991 (escluso l’anno della riunificazione delle Germanie), nello stesso ordine, i tassi di ciascuno erano stati del 2.61%, del 2.09% e del 2.72%; nei sei anni della fase della omogeneizzazione delle economie (prot. n. 6 del TUE), dell’1.78%, dell’1.54% e dell’1.27%. Nel 1998 la crescita dei tre Paesi era stata rispettivamente del 3.6%, del 2.0% e dell’1.4%. La caduta si è manifestata solo a partire dall’inizio del 1999, data di applicazione del principio della parità del bilancio.

 IV – IL DEPERIMENTO DIFFUSO …………… LE CAUSE ?

 6.         La tesi da me prospettata non ha formato oggetto di contestazione argomentata. La Commissione europea, interpellata formalmente due volte da deputati europei, si è limitata a dichiarare che nessun contrasto esisterebbe tra il PSC ed i Trattati (interrogazione Morganti e risposta Olli Rehn 22.6.2012; interrogazione Morganti e risposta Barroso 6.2.2013). Il contrasto è stato negato senza dimostrazione anche dall’Ufficio legale della Banca d’Italia.

            Il convincimento che vi fosse qualche cosa di anomalo nell’andamento dei Paesi europei risaliva per me al 2006 (v. Eurosistema. Analisi e prospettive, Giuffrè). Il fattore causante era stato da me identificato originariamente in un errore di interpretazione del Trattato sull’Unione (Maastricht) da parte della Commissione. Passato qualche tempo, sembrava impossibile che, se un errore di interpretazione vi fosse stato, non si fosse provveduto a correggerlo. Ne feci risalire la causa direttamente al Trattato.

            Nel 2012 in un convegno a Villa Vigoni tra una delegazione di giuristi tedeschi ed una di italiani davo rilievo al contrasto tra il PSC e gli artt. 109 J e K del TUE. Ai sensi del Trattato la diversità tra gli Stati membri era, non tanto possibile, quanto necessaria. A partire dal 1.1.1999 gli Stati, nell’ottica del Trattato, avrebbero dovuto infatti operare sotto lo stimolo della concorrenza, cercando ciascuno di valorizzare i propri fattori produttivi, naturali e umani. Perché la concorrenza potesse produrre tali risultati era necessario che non si formassero posizioni dominanti e che i Paesi ammessi all’euro potessero aspirare ciascuno a primeggiare sugli altri.

            Il PSC abrogava il principio della diversità entro i limiti del 2% e dell’1.5%, condizione necessaria per una leale concorrenza ed assoggettava tutti gli Stati ad un medesimo obbligo, quello della parità del bilancio, che si sarebbe dovuto perseguire ottemperando ad un secondo obbligo, specifico per ciascuno Stato, avente ad oggetto un percorso cui attenersi per realizzare il pareggio a medio termine. La imposizione retroattiva della parità a Stati, dei quali era stato accertato un diverso scostamento dalla parità in sede di scrutinio per l’ammissione all’euro, avrebbe prodotto conseguenze diverse da Stato a Stato. Sarebbero stati specificamente favoriti i Paesi che potessero contare su un pareggio strutturato in attivo.

7.         Alla mia tesi si opponeva la inverosimiglianza che la disciplina di un Trattato, tanto atteso e quasi solenne, quale quello di Maastricht, potesse essere stata sostituita da quella di un regolamento. Nella specie per di più si sarebbe trattato di un regolamento adottato con una procedura finalizzata a tutt’altro scopo. Secondo gli artt. 102 A e 103 TUE, ciascuno Stato membro avrebbe dovuto avere una propria autonoma politica economica estesa a tutti gli aspetti della economia, con la sola esclusione della moneta. Ai sensi dell’art. 103 del TUE gli organi dell’Unione avrebbero avuto il mero compito di coordinare con direttive di massima le politiche degli Stati.

            L’art. 103, n. 5, faceva rinvio al complesso procedimento di cui all’art. 189 c) del Trattato, da utilizzarsi non per l’adozione delle direttive, ma solo per la disciplina di sorveglianza multilaterale da applicarsi nel caso di inosservanza delle direttive in vigore. Il ricorso alla procedura dell’art. 189 c) TUE per l’adozione del regolamento 1466/97 non aveva nulla a che fare con questi oggetti.

            La parità del bilancio non poteva svolgere la funzione di coordinare le politiche economiche perché, all’opposto, privava gli Stati dello stesso potere di adottare ciascuno una propria politica economica. Gli Stati sarebbero stati da allora in poi assoggettati ad un obbligo, quello della parità del bilancio, fissato direttamente dal regolamento ed avrebbero dovuto attenersi a un percorso fissato Stato per Stato, dalla Commissione, dal Consiglio e dal Comitato economico e sociale.

8.         Esistevano almeno due ostacoli a che si accettasse di entrare nel merito dei profili di illegittimità da me fatti valere. Erano rappresentati dalla constatazione che era da quindici anni che si operava in quel modo e che non ero riuscito ad indicare chi fosse l’autore effettivo del regolamento 1466/97, e come lo stesso avesse ottenuto che la Commissione si avvalesse della procedura dell’art. 189 c) TUE. E nemmeno avevo spiegato come si fosse ottenuto che il regolamento 1466/97 ricevesse effettiva applicazione   Non c’è nessun libro giallo in cui manchi l’indicazione del colpevole. Non c’è delitto se non c’è un colpevole.  In base ad elementi documentali, che riterrei certi, oggi sono in grado di indicare il nome del principale responsabile. E come lo stesso sia riuscito ad ottenere il consenso di tutti i membri del Consiglio europeo, poi la proposta e l’adozione del regolamento da parte della Commissione, poi l’accettazione della sua effettiva approvazione da parte degli Stati.

 V – CHI E’ STATO ?  COME HA FATTO ?

 9.     La fonte che ha offerto lo spunto per tali chiarimenti è la biografia di Ciampi pubblicata da Paolo Peluffo, (Carlo Azeglio Ciampi. L’uomo e il presidente, BUR Rizzoli, 2014, pag. 237 segg.). Secondo Peluffo l’autore del testo di quello che sarebbe stato il regolamento 1466/97 sarebbe stato il Ministro delle finanze tedesco, Theo Waigel. L’iniziativa sarebbe partita nel 1995 (pag. 206). Escluderei che Waigel agisse per interessi personali, politici, economici o di prestigio. Gli intenti che gli possono essere attribuiti sono due. Waigel, persuaso che la soluzione migliore sarebbe stata quella di mantenere in vita le antecedenti monete nazionali, quindi il marco, potrebbe essersi augurato che l’Italia non superasse lo scrutinio di ammissione all’euro. In assenza dell’Italia, la Francia si sarebbe ritirata e con la Francia gli altri Stati. Unica valida alternativa sarebbe stata l’ottenere da tutti gli aspiranti alla zona euro l’accettazione preventiva all’assoggettamento in futuro a controlli di gestione massimamente severi.

            Waigel incontra Ciampi il 4 luglio 1996 (pag. 206). Una seconda volta (pag. 220) insieme a Tietmeyer, governatore della Bundesbank. Ciampi è pronto ad accettare ogni richiesta. E’ pessimista sulle sorti dell’Italia. Vede nell’ingresso nell’euro l’unica via di salvezza (pag. 264). Attua quattro manovre aggiuntive (pag. 269). I rappresentanti degli altri Stati, sull’esempio di Ciampi, accantonano ogni personale perplessità. Quando il principio della parità del bilancio è accettato nel vertice dell’Ecofin a Dublino del dicembre 1996, tutti si congratulano con Waigel. E’ stata una sua vittoria (pag. 237).

10.       Nel 1995 Waigel ottenne che la Commissione formulasse la proposta di quello che sarebbe stato il reg. 1466/97. Si utilizzava, conviene ripeterlo, una procedura predisposta per il coordinamento delle politiche economiche degli Stati. Secondo il TUE gli Stati avrebbero avuto ciascuno una propria autonoma politica economica e l’Unione la avrebbe coordinata con direttive di massima. Lo scostamento operato con il reg. 1466/97 rispetto a tale disciplina rappresentò, lo si è già detto, un grande salto. Alle autonome politiche economiche di ciascuno Stato membro, sarebbe subentrata la norma, rigida e ferma nel tempo del bilancio a medio termine in attivo o in pareggio, imposta direttamente dal regolamento. Al coordinamento da effettuarsi da Commissione e Consiglio con direttive di massima e che si sarebbe concluso con “raccomandazioni”, atti non vincolanti (art. 189 TUE), venivano sostituite decisioni prese dalla Commissione e dal Consiglio, con il concorso del Comitato economico e sociale, qualificate enfaticamente “inviti”, dotati in realtà di forza cogente. Se l’invito non fosse stato accettato, lo Stato sarebbe risultato inadempiente all’obbligo di presentazione del programma.

 VI – GLI  EFFETTI

 11.       In aggiunta ai dati statistici di cui si è dato conto (v. retro, n. 5), va richiamata l’attenzione su tre specifici effetti del Patto di stabilità e crescita, gravemente pregiudizievoli.

Il primo si collega al fatto che l’autore ed i coautori del PSC hanno usato consapevolmente ogni possibile cautela per evitare che ci si rendesse conto di quanto si andava a disporre.

Lo si può comprendere se con pazienza, si seguono le date delle procedure formali.

            Quelle di avanzamento nella procedura del reg. 1466/97 sono riportate nella nota (2) in calce allo stesso regolamento. Il Parlamento europeo emetteva il suo parere il 28 novembre 1996, la posizione comune del Consiglio porta la data del 14 aprile 1997, il 29 maggio del 1997 si aggiunge la decisione del Parlamento. Si era andati avanti “al galoppo”, a tal punto che alla data della decisione del Parlamento non ci si rese conto che la posizione comune del Consiglio che avrebbe dovuto precederla non era stata ancora pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Comunità. Lo sarebbe stata solo il 30 maggio, giorno “successivo”. Il regolamento attesta di essere stato “fatto” (questa è l’espressione adoperata nel testo) il 7 luglio 1997, con buon anticipo rispetto al 3 maggio 1998, data dello scrutinio. Il regolamento per sua stessa determinazione (art. 13) sarebbe entrato in vigore il 1° luglio 1998. Perché allora tanta fretta?

12.       Nel dicembre 1996 il progetto di Waigel (il Patto di stabilità e crescita) aveva superato la prima tappa per effetto della adozione dello stesso da parte degli Stati membri all’Ecofin di Dublino. La seconda tappa si era conclusa il 7 luglio 1997 con la “adozione del regolamento da parte del Consiglio”.

Restava da superare la difficoltà maggiore. Come si sarebbe potuto portare ad effettiva attuazione il regolamento nonostante l’evidentissimo contrasto con quanto disponevano gli artt. 102 A, 103 e 104 c) del TUE (Maastricht)? Ci si riuscì. Con uno studio sapiente delle date.

Il 2.10.1997 era stato stipulato il nuovo Trattato, quello di Amsterdam. I suoi articoli 98, 99 e 104 riproducevano il testo degli articoli 102 A, 103, 104 c) del Trattato di Maastricht. Il termine del 1° marzo 1999 per la presentazione del piano di stabilità risaliva a più di due anni prima, quando il testo del regolamento era stato adottato. E’ lecito ipotizzare che la Commissione, il Consiglio ed il Comitato economico e sociale non abbiano frapposto indugi nel completare la procedura di approvazione dei primi programmi di stabilità presentati dagli Stati?

Nel frattempo anche la procedura per il Trattato andava completandosi. Presentate le ultime ratifiche, il Trattato di Amsterdam entrò in vigore il 1° maggio 1999. Troppo tardi! Il regolamento lo aveva battuto sul tempo, con la sua concreta applicazione effettuata con due mesi di anticipo!

            Il Trattato avrebbe dovuto prevalere sul regolamento sia quale fonte di rango superiore, sia perché atto successivo. La Commissione andò imperterrita avanti con il regolamento. Gli Stati tacquero. In quel momento la sorte degli Stati membri, sia dello “Euro” che dell’Unione, con riflessi anche sugli USA e sugli altri continenti fu segnata.

 VI – GLI EFFETTI – LA DEMOCRAZIA SOPPRESSA

13.       Gli effetti prodotti dalla concreta applicazione del reg. 1466/97 e degli atti conseguenti e collegati sono più numerosi, vari e gravi di quanto si immagini.

            Delle risultanze statistiche abbiamo già parlato e non staremo a ripeterci. Non si potrebbe però non aggiungere che al numero dei disoccupati, a quello specifico dei giovani ancora in cerca del primo lavoro, alle piccole e medie imprese costrette a chiudere i battenti, alle strutture private e pubbliche che sono crollate o in condizioni di degrado per mancata manutenzione straordinaria od ordinaria, a quelle pubbliche non utilizzabili perché non completate, ai casi numerosi di suicidi di piccoli imprenditori e lavoratori, corrispondono altrettanti fattori produttivi perduti o nell’attualità insufficientemente utilizzati o inutilizzati. Cioè, in concreto, a perdita di ricchezza.

            Passando ai danni, ne va indicato con precedenza uno generalmente non segnalato. E’ quello prodotto dall’occultamento della manovra effettuata negli anni 1995-1999 il cui effetto nel tempo è di sostituire al posto dei tre Trattati (Maastricht, Amsterdam, Lisbona) tre regolamenti ed atti collegati e conseguenti.

            Se lo si fosse spiegato quanto meno a partire dal momento in cui cominciarono a manifestarsi le prime conseguenze, si sarebbe stati in tempo per rimediare. Quando una matassa di lana si è raggomitolata, diviene difficile rintracciare il filo che la potrebbe sbrogliare. Dopo quindici anni di mancata applicazione dei Trattati le condizioni sono totalmente mutate. La ricerca di una via di uscita è divenuta difficile.

            Una seconda conseguenza del ritardo nella scoperta della verità è che, non essendo nota la causa, tutti accusano tutti. Ne è seguita una confusione generale. I titolari dei poteri di vertice, a livello nazionale o dell’Unione, hanno lottato e continuano a lottare per un potere che non esiste.

14.       Il regolamento 1466/97 e quelli successivi hanno posto fine al regime democratico, di cui gli Stati europei rappresentavano la principale espressione al mondo, allo stesso vincolati da norme costituzionali interne, condizione necessaria nello stesso tempo per essere ammessi all’Unione e alla zona euro. Questo risultato è da considerarsi tanto più sorprendente in quanto è stato ottenuto senza violenza, in modo silenzioso e senza che nessuno se ne accorgesse. L’abilità con la quale si è operato è stata tale che ancora oggi le collettività che sono state private della democraticità adottano condotte che in un regime democratico avrebbero in qualche modo influito sui governanti, ma producono solo danni spesso ingenti prima che ci si accorga che tutto è inutile perché ci si rivolge contro un governo che, a voler intendere l’espressione nel senso pieno e reale, da tempo non esiste. Il regime democratico poggia su due presupposti: che esista un vertice che disponga di “poteri” dei quali si avvalga per perseguire una propria politica economica che nelle determinate condizioni storiche abbracci tutti i settori rilevanti della comune convivenza e che i cittadini dispongano di una ampia tutela della libertà personale e di un adeguato livello di diritti sociali e del potere di influire con il voto personale, periodico ed eguale, a mezzo dei partiti politici ed avvalendosi del diritto di libertà e della pressione sociale, sugli indirizzi politici che il governo adotterà ed ai quali i cittadini dovranno assoggettarsi. Se il governo è privato dei poteri essenziali per decidere una propria politica economica, il regime democratico è automaticamente cancellato per il venir meno del suo presupposto.

La soppressione del regime democratico si qualifica tecnicamente come “instaurazione di fatto di un nuovo regime”, fattispecie ben più grave di quella che si qualifica “colpo di Stato”. Privare una collettività complessa del regime democratico, è operazione pericolosa e difficile. Il regolamento 1466/97 vi è pervenuto in modo semplice ed imprevedibile.

Nel sistema del TUE (Maastricht), i governi dei Paesi membri erano ciascuno titolare di una propria autonoma capacità di politica economica e la stessa erano tenuti ad esercitare per conseguire l’obiettivo della crescita. Agli Stati membri, al predetto fine, era stato attribuito uno strumento essenziale, quello di indebitarsi entro limiti corrispondenti a quelli di cui fruisce la maggior parte dei Paesi competitori. Il regolamento 1466/97 ha cancellato d’un colpo, e senza che qualcuno potesse accorgersene, i poteri necessari per deliberare ed attuare una propria autonoma politica economica. Li ha sostituiti con un dovere di carattere generale, quello del pareggio del bilancio a medio termine, congiunto all’obbligo, diverso dall’uno all’altro Stato membro, di attenersi per raggiungere il risultato ad un percorso prefissato dagli organismi dell’Unione. Con un solo principio, condensato in non più di quattro righe del regolamento (art. 2, lett. a e art. 4, n. 1) gli Stati membri sono stati privati degli strumenti necessari per realizzare l’obiettivo della crescita, cui le collettività aspiravano, ed è stato soppresso il principio democratico.

VII – SEGUE / LA TERRA E IL PESO UMANO – PECULIARITA’ UMANE E NATURALI

 15.       Per portare alla luce alcuni degli effetti, bisogna molto scavare. Accade per due effetti di straordinaria importanza.

            Di uno, la soppressione della democrazia, si è già discorso (v. retro n. 13). Vi ritorniamo per due ragioni. Daremmo per certo che i principali responsabili o corresponsabili, se ne avessero avuto consapevolezza, mai e poi mai avrebbero prestato il loro concorso alla imposizione generalizzata del vincolo della parità del bilancio.

La soppressione dei poteri contemplati dal TUE, che ha provocato la fine del regime democratico negli Stati membri, è anche la causa di un distinto effetto, che supera forse per importanza quello gravissimo della antidemocraticità.

            Il processo di unificazione economica dell’Europa aveva preso le mosse da una proposta di Raymond Barre, all’epoca vice presidente della Commissione europea, presentata al vertice dell’Aja dell’1-2 dicembre 1969. Fu approvata e trasfusa nel piano Werner. L’esigenza a base della proposta, che convinse i Paesi europei della necessità di confluire in un unico mercato, era in origine di mera difesa. La crisi petrolifera dei primi anni ’60 aveva provocato la formazione di un imponente volume di liquidità di origine privata. Superata la crisi, la liquidità, riversandosi sui mercati, lucrava sui divari nel cambio delle monete dei quattro principali Paesi europei, Francia, Germania, Italia, UK. Il progetto Werner prevedeva che si arrivasse per gradi ad un regime di cambi fissi, di fatto ad una moneta unica, entro il primo decennio del nuovo secolo. Senza rendersene conto si era così posto mano a quella che, se attuata, sarebbe stata la più grandiosa ed originale utilizzazione dello strumento giuridico mai avutosi nella storia umana. Si sarebbe creato un organismo, che sarebbe stato terzo nel mondo per dimensione, dopo Cina ed India, ed il più ricco alla pari degli USA, operando con due insoliti mezzi, da un lato, il “consenso” di Paesi che per secoli si erano combattuti con ferocia, e dall’altro, la normazione giuridica. Un obiettivo che sarebbe andato molto al di là degli originari propositi.

A tale primo risultato il progetto, in modo inconsapevole, ne avrebbe aggiunto un altro. Il nuovo organismo avrebbe costituito un prototipo, riproducibile in altre aree del mondo, che avrebbe soddisfatto due insorgenti esigenze. Il processo di globalizzazione si stava sviluppando in modo tumultuoso, al di là di ogni previsione. Due pericoli erano alle porte, che scomparissero le tipicità culturali ed economiche locali e che, nella corsa allo sviluppo, il pianeta venisse “usurato” al di là della sua capacità di sostenere il peso umano. I principi cui si ispirava il progetto europeo avrebbero garantito una efficace protezione sotto entrambi i profili. Al nuovo organismo veniva infatti assegnato l’obiettivo non di una crescita massima, bensì di una crescita “sostenibile”. Nella scelta dell’aggettivo era contenuta una intuizione geniale. In funzione della sostenibilità si introducevano valori di riferimento relativi al debito ed all’indebitamento (3% nell’indebitamento e 60% nel debito rispetto al PIL) che sarebbero stati utilizzati per introdurre limiti alla crescita. Il 3%, applicato in conformità ai principi stabiliti nell’art. 104 c) TUE, avrebbe consentito lo sviluppo umano, ma nello stesso tempo lo avrebbe consentito entro limiti compatibili con la sua sostenibilità da parte del pianeta.

Si sarebbe aggiunto un secondo risultato. Alla globalizzazione, in una con straordinari benefici, si accompagna un pericolo al quale è difficile sottrarsi. Se in un luogo sono presenti fattori produttivi interessanti, inutilizzati o scarsamente utilizzati (materie prime rare, vaste estensioni coltivabili, giacimenti minerari) qualcuno, avvalendosi del principio della libera circolazione dei capitali, può venire da lontano ed appropriarsene. L’effetto di lungo periodo è la livellazione dei luoghi e delle culture. La ricchezza del mondo sta invece nella biodiversità, riferita alle collettività ed alla natura.

Il progetto originario del TUE (Maastricht) avrebbe offerto la soluzione a questo problema, che è tanto più grave in quanto normalmente eluso. Nel mondo globalizzato operano in concorrenza non solo individui, imprese ed ogni altro tipo di soggetti o figure giuridiche, ma anche gli Stati. Quelli di essi, che dispongono di monete nazionali, le gestiscono anche in funzione della reciproca concorrenza. Nell’eurozona la concorrenza tra lo “euro” e le altre monete, è condizionata dalle regole del Trattato. Per tutti gli aspetti della economia distinta dalla moneta, è affidata alle politiche economiche di ciascuno Stato membro, coordinate dall’Unione.

La tutela del pianeta nei confronti del peso umano è affidata ad accordi internazionali. I propositi sono alti, i risultati sono modesti, perché gli interessi non sono omogenei. Il sistema europeo, quale risultato del Trattato di Maastricht, agendo sulla produzione e sui consumi, avrebbe concorso al risultato con un metodo nuovo, semplice ed efficace (v. artt 109 J e K e prot. n. 6).

La missione della crescita, come si è più volte ricordato, è affidata dal TUE agli Stati membri, i quali vi provvedono con le loro politiche economiche, che devono essere autonome e svolgersi in concorrenza. Il Trattato ha precluso la formazione di posizioni dominanti, con l’applicazione di tecniche dirette a produrre un “alto grado di sostenibile convergenza” (art. 109 J e K e prot. n. 6 TUE). La “concorrenza” è l’efficace “vincolo esterno” che stimola gli operatori, nel caso di specie gli Stati, a dare il meglio di sé per primeggiare o comunque non essere soverchiati da altri. Non potendo agire sulla moneta, la concorrenza deve effettuarsi, nel modo che tra tutti è il più semplice e spontaneo, valorizzando al massimo le peculiarità naturali ed umane, presenti nel territorio. Benintenso, il territorio dell’Unione è esposto alla concorrenza mondiale. Creando condizioni comuni per gli Stati che appartengono allo stesso mercato e specificamente per quelli che adottano la moneta comune, si aggiungono stimoli specifici. Le peculiarità si affermano non per effetto di divieti rivolti ad altri o di disposizioni a proprio favore, ma per gli stimoli che maturano in un regime di leale di concorrenza.

Il PSC, con il principio della parità del bilancio, fa venir meno gli stimoli in favore della valorizzazione delle peculiarità e provoca effetti depressivi. Indebolisce la capacità di difesa delle peculiarità locali, umane e naturali, di fronte alla aggressione esterna.

Il PSC (reg. 1466/97 e successivi) ha eliminato la concorrenza tra soggetti omogenei e l’ha sostituita con assegnazione autoritaria di compiti. Ha colpito al “cuore” lo straordinario progetto che i Paesi Fondatori erano riusciti a mettere a punto e che, dopo quattro decenni, di un percorso comportante sacrifici anche elevati, stava per realizzarsi.

 VIII  – CHE FARE ? – LE RESPONSABILITA’

 16.       Un primo suggerimento riguarda ciò che non va fatto. Tenere sempre presente gli effetti devastanti prodotti dalla leggerezza e dalla improvvisazione con le quali si agì negli anni dal 1995 al 1999. La prima necessità è che una indagine/inchiesta venga promossa con urgenza dal Parlamento europeo. In mancanza, vi potrebbero provvedere di concerto alcuni degli Stati membri, i cui vertici di governo siano non compromessi o meno compromessi con le esperienze passate. L’indagine/inchiesta dovrebbe accertare lo stato reale in cui attualmente versano l’Unione ed i Paesi membri. Le condizioni presenti non sono più quelle del 1992. Nemmeno quelle del 3 maggio 1998, data dello scrutinio di ammissione all’euro. Quindici anni di anomalie nella normazione e nella applicazione hanno prodotto effetti iniziali non tutti singolarmente identificabili. Ogni effetto, in ogni istante è divenuto causa di quello successivo. Si sono prodotte serie innumerevoli di cause ed effetti, che si integrano o si sovrappongono.

 17.       Bando dunque alla improvvisazione! Può accadere però che si renda indispensabile agire prima che le condizioni reali siano state accertate. Non si potrà non provvedere. Ma solo con la massima cautela, evitando di compromettere il futuro.

 18.       Su un piano più generale è utile tenere distinti gli aspetti “personale/umano” e “normativo”.

 18a)     Per quanto concerne l’aspetto personale/umano riterrei indispensabile che venga preliminarmente accertato se le deduzioni sin qui ricavate dalla biografia dedicata da Peluffo a Ciampi e da altre fonti siano esatte. Probabilmente lo sono. Ma non dovrebbe restare nemmeno un’ombra di incertezza.

Guido Carli, Ministro italiano del Tesoro, giocò un ruolo importante nella fase in cui si adottarono le decisioni finali in merito allo “Euro”, la nuova moneta. Di recente è stato pubblicato un importante volume che reca testimonianze su Carli. Due in particolare si connettono alle questioni qui trattate, quella del Ministro italiano degli Esteri, Gianni De Michelis, che aveva affiancato Carli nel corso della trattativa per il TUE (Maastricht) e quella di Mario Sarcinelli, direttore generale del Tesoro nel medesimo periodo. Sono state tenute presenti.

 18b)     Il principale responsabile, Waigel, Ministro delle Finanze del RFT, e Ciampi, all’epoca Ministro del Tesoro italiano, con lui compartecipe e dallo stesso in un certo senso coartato, sono stati in seguito titolari di uffici di rilievo primario, la Presidenza del partito CDU (Unione Cristiano-Sociale in Baviera) l’uno, la Presidenza della Repubblica italiana l’altro. Dal 1999 hanno mantenuto, Ciampi in modo assoluto, Waigel con molta probabilità, il silenzio sul Patto di stabilità e crescita e sui relativi effetti. Se il PSC avesse risposto alle speranze ne avrebbero rivendicato il merito. Il silenzio può spiegarsi per il turbamento che procuravano i risultati. Il senso di responsabilità potrebbe indurli a rendere pubbliche dichiarazioni che chiariscano la questione. Costituirebbe un contributo essenziale, altamente apprezzabile.

 18c)     Waigel e Ciampi erano privi di qualsiasi interesse personale. Erano ispirati da alti ed apprezzabili ideali, l’uno quello del marco, la più stabile tra le monete, l’Unione europea l’altro, organismo la cui creazione avrebbe concluso una lunga fase di attenta progettazione ed anche di sacrificio. Ciò tuttavia non annulla le loro responsabilità. Anche i più nobili sentimenti non autorizzano uno scostamento dall’obbligo del più rigoroso rispetto delle norme da parte di titolari dei poteri di vertice.

Distinte responsabilità sono ascrivibili ai titolari di funzioni di vertice nell’Unione e negli Stati membri. Sono tutti quelli che, a partire dalla proposta iniziale del regolamento 1466/97 e sino ad oggi, quali membri della Commissione europea, o titolari delle responsabilità di Ministro del Tesoro, delle Finanze, della Economia (e simili) negli Stati membri, avrebbero avuto obbligo di rispettare e far rispettare i Trattati. Tale fondamentale obbligo hanno violato e/o concorso a far violare, o consentito che venisse violato, partecipando ai procedimenti per l’approvazione del reg. 1466/97, 1055/2005 e 1175/2011, di atti anomali quali il Fiscal Compact, nonché alla adozione ed approvazione di provvedimenti integrativi od applicativi di quelli elencati.

 Nei confronti di tutti i soggetti elencati, a prescindere da quelli verso l’Unione, sono in ipotesi applicabili le sanzioni costituzionali, penali, civili, contabili previste dal diritto europeo e dai sistemi giuridici degli Stati membri. Tutti costoro, per dignità e per senso del dovere dovrebbero farsi da parte. Come è accaduto molte volte nella storia, quando un medesimo tipo di responsabilità sia condiviso da molti, i loro nomi cadrebbero presto nell’oblio. Non vi sarebbero altre conseguenze.

IX – PIAZZA PULITA – LE NUOVE GENERAZIONI POLITICHE

 19.       Piazza pulita, dunque. E’ necessario. Coloro che hanno operato nel passato hanno occhi foderati dalle antiche esperienze. Tenderebbero a difendere le passate condotte, per ragioni di principio e/o per tutelare posizioni acquisite. Prima sgombereranno il campo, meglio sarà.

 20.       Se si analizzano in modo attento i risultati della recenti elezioni europee e si tiene conto degli eletti, quali individui e non solo quali appartenenti ad un gruppo, si potrebbe constatare che in parecchi degli Stati membri i detentori del potere di vertice appartengono in maggioranza a nuove generazioni politiche, non coinvolte nelle condotte illecite dell’antecedente quindicennio. Appartenenti alle nuove generazioni politiche, se si prescinde dall’inquadramento all’uno piuttosto che ad un altro dei gruppi costituiti, potrebbero essere in maggioranza anche nel Parlamento europeo. L’allontanamento di quanti si siano compromessi con violazione dei Trattati nel periodo antecedente, anche alla luce di tali nuove considerazioni, appare a maggior ragione utile. Non bisogna avere timore nell’inserimento di nuove generazioni politiche nelle funzioni di vertice. L’esperienza maturata nell’immediato periodo post-bellico, non solo in Italia ma nella generalità dei Paesi democratici europei, dimostra che nei nuovi politici una sana passione, un sincero senso del dovere, una intelligenza sveglia, compensano ampiamente l’inesperienza presto colmabile.

 X – DA SCILLA A CARIDDI

 21.       Passando alla normativa, occorre ricordare ancora una volta che il 3% ed il 60% del PIL giuridicamente non sono mai esistiti come limiti all’indebitamento ed al debito dei Paesi membri. Erano valori di riferimento che il Trattato avrebbe tenuto presenti nel regolare la materia del debito e dell’indebitamento. La disciplina è solo quella dettata dall’art. 104 c) TUE (Maastricht), oggi 126 del TFUE (Lisbona).

            L’art. 104 c) TUE, ora 126 Lisbona, è oggi importante, non tanto per il rilievo accordato alla tendenza (aspetto molto rilevante nel 1992), quanto nella parte in cui ammette il superamento del valore di riferimento qualora il fattore sia solo “eccezionale e temporaneo”. L’”eccezionalità” e la “temporaneità” sono condizioni presenti dal 1° marzo 1999. Consistono nel fatto che da quella data alla applicazione del Trattato è subentrata quella del regolamento 1466/97. Si assiste oggi a posizioni addirittura patetiche: aspiranti alla titolarità di funzioni di vertice, responsabili nel passato per inottemperanze al Trattato, promettono un allentamento dei vincoli del 3% e del 60% che giuridicamente non sono mai esistiti. Dimostrano ancora una volta o di non conoscere i Trattati o di non volerli rispettare. Promettendo l’allentamento del vincolo si riconosce in modo implicito ma chiaro, che il rigore è stato causa di danno. Di tali manifestazioni di benevolenza non ci sarebbe comunque alcun bisogno, perché l’art. 104 c), oggi 126 Lisbona, consentirebbe di andare ben oltre il 3% ed il 60%, essendo tuttora presente il fattore eccezionale rappresentato dalla applicazione di una regola diversa ed opposta, rispetto a quella del Trattato.

22.       Nonostante gli articoli 104 c) TUE e 126 Lisbona, che consentirebbero una espansione dell’indebitamento per effetto della preesistenza delle condizioni di eccezionalità, a tali articoli non converrebbe far ricorso. E ciò per una ragione diversa e assorbente.

            E’ maturata in alcuni Stati membri, certamente già in Italia, una situazione di fatto, dalla quale origina un rapporto parametrato del PIL, la cui incidenza supera di molto quella del PIL con il debito. Ci si riferisce al rapporto tra il costo totale del debito (spesa per interessi) e l’andamento del PIL. Se il tasso di crescita del PIL nell’anno e, secondo previsioni ragionevoli, in quelli successivi è inferiore al costo totale del debito espresso in termini percentuali del PIL, il rapporto è destinato ad ulteriormente deteriorarsi.

 Sul costo totale influisce certamente il livello del tasso di interesse da corrispondersi per il debito contratto nell’anno. Ma la gran parte è rappresentata dal costo del debito ancora in essere, contratto negli anni anteriori. Se il tasso di crescita del PIL è pari a quello del totale degli interessi, espresso in numero percentuale del PIL, il rapporto rimane immutato. Se il totale degli interessi, espresso in punti percentuali del PIL, è superiore, il rapporto si deteriora. Se il totale degli interessi corrispondesse ad un numero percentuale del PIL, che difficilmente il PIL eguaglierà nell’anno ed in quelli successivi, potrebbe formarsi una spirale negativa nella quale l’economia si avviterebbe. Sino a raggiungere un punto di non ritorno. Il sistema potrebbe implodere.

Nel 2013 in Italia (v. tabella n. 8, Bollettino B.I., n. 2/2014, pag.37) il totale del debito è risultato pari al 5.3% in punti percentuali del PIL. L’avanzo primario è stato del 2.2.%. Permaneva una differenza del 3.1%. Il che significa che la situazione rimarrebbe immutata se il tasso di crescita del PIL fosse pari al 3.1%. Se l’economia crescesse ad un tasso inferiore, il rapporto si deteriorerebbe. Nell’ottobre 2013 (tabella n. 9, stessa pagina) la previsione di crescita del PIL è stata del -1.8%. Il rapporto debito/PIL a fine 2013 era pari a 132.6%. Se la previsione nel 2014 restasse ferma, non ci sarebbe da sorprendersi se il rapporto debito/PIL finisse per aggirarsi intorno al 136-137%. Il rapporto debito/PIL era pari al 106.5% nel 2004, è salito al 110% nel 2005, è stato del 132.6% nel 2013.

I settori in funzione dei quali si chiede un rallentamento del rigore sono normalmente indicati nella innovazione, nella istruzione, nella esecuzione di opere pubbliche, ambiti nei quali il profitto si manifesta a distanza di tempo. La concessione di un allentamento del rigore potrebbe risolversi, per lo Stato che se ne avvalesse, in un boomerang. Da Scilla si cadrebbe in Cariddi. E allora? L’ipotesi formulata voleva solo dimostrare come sia delicata la fase attuale e come le decisioni da prendere siano difficili.

 XI –  IL FUTURO – 

 23.       Forse per l’Unione europea è venuto il momento di fare un salto e puntare sull’Unione politica. In una Unione politica la garanzia del debito è data dalla capacità di produrre crescita, espressa dal sistema nel suo insieme. Un livello di capacità che gli Stati membri, nelle attuali condizioni, non sarebbero in grado di promuovere. Gli Stati americani confederati, all’atto di confluire nella Federazione, avevano un debito elevato. La Federazione estese il suo dominio ad aree vastissime e vergini, colme di ogni tipo di risorse. Fu la conquista del West. Anche l’Unione europea contiene aree che potrebbero essere meglio valorizzate, ma non certamente in pari percentuali. Pur tuttavia il territorio dell’Unione è colmo di macerie. E’ ciò che oggi ci consegnano i trascorsi quindici anni. Disoccupati, imprese che hanno chiuso i battenti, opere pubbliche o private deterioratesi o inutilizzate corrispondono tuttavia ad altrettanti fattori suscettibili di valorizzazione. Una situazione consimile si ebbe alla fine del conflitto mondiale, in Francia, in Germania, in Italia. I tre Paesi avevano subito danni. Non mancavano però strutture produttive che cominciavano a dar segni di poter rimettersi in moto. Le capacità produttive dell’Unione sono oggi nel complesso sottoutilizzate. Un governo politico dell’Unione avrebbe mezzi e strumenti per avviare un processo virtuoso di sviluppo. Sono ovviamente ipotesi. Analisi accurate potrebbero dimostrare che esiste un fondo di verità. A questo punto il compito dello “antico” professore deve considerarsi esaurito. La parola passa alla grande collettività dei “cittadini europei” e alle nuove generazioni politiche che la rappresentano.

24.       Beate le nuove generazioni. Se riusciranno a tracciare una linea di demarcazione netta con i trascorsi quindici anni, potranno affrontare il futuro con speranza, saggezza, entusiasmo. Potranno lasciare una forte impronta “europea” nella storia futura. Così come per millenni è già accaduto!

Roma, 4 luglio 2014

 Giuseppe Guarino – www.giuseppeguarino.it

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* Socio Straniero dell’Accademia dei Lincei – Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche. Formerly Executive Director, Joint Economic Committee, Congress of the United States.  Professor and Chair, Lyndon B. Johnson School of Public Affairs, The University of Texas at Austin.