“Non credo neanch’ io alla razza”
Paolo Simoncelli – “Non credo neanch’io alla razza” – Gentile e i colleghi ebrei (ed. Le Lettere, collana La Nuova Meridiana)
__________________________________________ Recensione a cura di Maurizio BERGONZINI –
già pubblicata sul N. 321 di Diorama
A quasi settant’anni dalla sua uccisione per mano partigiana la discussione sull’atteggiamento di Giovanni Gentile nei confronti dei “colleghi ebrei” e, più in generale, della normativa razzista introdotta in Italia nel 1938 si arricchisce dell’importante studio di Paolo Simoncelli (professore ordinario di Storia moderna presso la facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma) fondato sul reperimento, la raccolta, l’analisi di una vasta documentazione e di fonti epistolarie, in parte finora inedite.
Il tema affrontato del volume si inserisce in pieno in un dibattito storiografico più vasto: quello sulla datazione della “penetrazione di idee naziste in Italia” e quindi della correlata responsabilità degli intellettuali nella loro accettazione e diffusione. Non viene quindi taciuta, nel libro, la polemica tra Momigliano e Chabod su questo argomento, né dimenticata la tendenza di molti intellettuali a “Cancellare le tracce”, delle loro azioni discutibili, seguendo l’espressione scelta da Pierluigi Battista per un suo volume in argomento.. Esemplare è, da questo punto di vista, la vicenda di Giovanni Spadolini, che volle far escludere dalla propria bibliografia ( con determinazione testamentaria) gli scritti giovanili fino al 1947 e quindi anche quelli apparsi durante la Repubblica Sociale in “ Italia e civiltà” (la rivista fiorentina di cui l’editore Volpe pubblicò nel 1971 una bella antologia, curata proprio dal suo fondatore e direttore Barna Occhini).
L’ attività di Gentile a favore dei “colleghi ebrei” non è negata ormai da alcuno – fatta eccezione per chi lo descrive come firmatario del “Manifesto della razza, pubblicato sui giornali in appoggio alle leggi” ( La Nazione, 17 aprile 2011): simili sciocchezze non hanno spazio nel dibattito storiografico- ma vengono ( da ultimo Giovanni Rota nel suo articolo Il filosofo Gentile e le leggi razziali pubblicato nella “Rivista di storia della filosofia”) limitate all’“oasi pisana” stabilendo una divaricazione tra l’atteggiamento a favore di numerosi ebrei e la, presunta, mancanza di prese di posizione pubbliche in argomento.
Simoncelli tratteggia, con dovizia di notizie e di riferimenti documentali, l’opera affettuosa di Gentile a tutela di Walzer, Mondolfo, Eugenio Colorni, Sciaky, Roberto Almagià, Pincherle, Paolo D’Ancona, Giorgio Falco, Mario Fubini (tutti collaboratori della casa editrice Sansoni diretta dal figlio del filosofo Federico) e i suoi tentativi (anche attraverso colloqui con Mussolini e con Bottai, ministro delll’ Educazione Nazionale-) di garantire loro la pubblicazione degli importanti studi compiuti. Il che gli avrebbe comportato (gennaio 1939) una nota polemica della rivista di Carlo Costamagna “Lo stato” che individuava fra i collaboratori dell’Enciclopedia “qualcuno notoriamente antifascista; parecchi, anzi molti, israeliti”. La sensibilità umana di Gentile si spinse ad accogliere la decisione di Paul Oskar Kristeller che, costretto nonostante un intervento diretto di Gentile su Mussolini a lasciare l’Italia, non intendeva accettare l’elargizione di 5.000 lire disposta dal Duce “per metterlo in condizione di sostenere più agevolmente le spese di trasferimento”. “ La situazione era umiliante non volevo il mio sdegno ma capivo che se avessi rifiutato ne avrei pagato le conseguenze. Firmai. E corsi subito da Gentile”: così racconta Kristeller in La vita degli studi, pagina 161. E così la somma in questione fu donata alla Normale che provvide poi ad attribuirgliela con una decisione formale che così dice: “la Scuola, per una disposizione di legge di carattere generale, deve perdere il caro Dott. Kristeller, lettore di tedesco, di cui tutti avevano riconosciuto le non comuni qualità …. la Scuola desidera contribuire alle spese per una nuova sistemazione deliberando un premio di operosità”.
Simoncelli dimostra come questo impegno di Gentile non possa considerarsi limitato ad una sfera per così dire “privata” segnalando le occasioni pubbliche in cui egli espresse in maniera esplicita il proprio sentire: dalla nuova edizione (1942) del suo Gino Capponi e la cultura toscana del secolo XIX (in cui pretese non fosse espunta la dedica al suo maestro ebreo “Al nome caro e onorato di Alessandro D’Ancona maestro indimenticabile, degli scrittori toscani della nuova Italia, il più italiano”) fino all’intervento in commemorazione di Michele Barbi del 28 maggio 1943 in cui ricordò nuovamente il maestro “israelita ma di eccezione”, “quello che più di tutti ci fece sentire ed amare nella perennità della storia e nel calore della fede vivente la Patria immortale. E abbandonarlo oggi all’oblio ci parrebbe empietà vile”.
E il 6 gennaio 1942 sulle colonne di “Civiltà” sosterrà che l’agognato ‘nuovo ordine’ “riconoscerà il vantaggio della mutua intelligenza e della collaborazione fraterna delle razze diverse, nessuna delle quali è nata per servire”, concetto ribadito al Teatro Brancaccio pochi giorni dopo auspicando la “nuova collaborazione a cui tutte le razze saranno chiamate alla fine del presente conflitto”.
Queste espressioni esplicite, dirette, pubbliche contro il razzismo e un nazionalismo inteso come chiusura non erano nuove: Così, ad esempio, si era rivolto ai presenti nella prolusione alla seduta inaugurale dell’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente il 21 dicembre 1933: ““Roma non ebbe mai un’idea che fosse esclusiva e negatrice… Essa accolse sempre, e fuse nel suo seno, idee e forze, costumi e popoli. Così poté attuare il suo programma di fare dell’urbe, l’orbe. La prima e la seconda volta, la Roma antica e la Roma cristiana: volgendosi con accogliente simpatia e pronta e conciliatrice intelligenza a ogni nazione, a ogni forma di vivere civile, niente ritenendo alieno da sé che fosse umano. Sono i popoli piccoli e di scarse riserve quelli che si chiudono gelosamente in sé stessi, in un nazionalismo schivo e sterile”.
Concetti che richiamano quanto, alla vigilia delle leggi razziali, avrebbe espresso un altro fascista, che pure era lontano dal pensiero idealistico gentili ano ed era in costante odore di fronda, il fiorentino Berto Ricci: “Niente è così stupido e poco italiano come l’intolleranza, il disprezzo preconcetto verso gli stranieri, e il volersi chiudere nel guscio. Non c’è nulla di meno italiano del ripudio a priori d’ogni sapienza, esperienza, eccellenza straniera. Non c’è invece nulla di più anticamente, tradizionalmente, permanentemente italiano dell’accogliere, assimilare, ripensare, riplasmare ogni sapienza, esperienza, eccellenza”.
Maurizio Bergonzini