Riforma della Costituzione
Il “Vizio Capitale” e i dettagli sconosciuti della “Riforma Costituzionale”
Per capire il vizio capitale della nuova Costituzione italiana, targata Renzi, prima ancora di scrutarne le trappole e i trabocchetti sconosciuti al grande pubblico, è necessario fare una piccola premessa interrogandoci su cosa sia la Costituzione.
Questo termine sul piano meramente descrittivo indica la legge fondamentale di un ordinamento giuridico, la fonte principale o primaria da cui le altre fonti traggono la propria legalità e legittimità; ma sul piano politico-filosofico, cioè del pensiero concreto, come abbiamo imparato dall’illuminismo e dalle rivoluzioni americana prima e francese poi, significa legge fondamentale che costruisce il sistema della separazione dei poteri che debbono coesistere in equilibrio senza che l’uno prevalga sull’altro.
La Costituzione è dunque non un insieme di puntigliose regolette di dettaglio, ma un corpo organico di principi fondamentali, di diritti e di doveri, di eguaglianza, di giustizia, di equità, prodotto dalla sovranità del popolo, manifestata attraverso un’assemblea costituente, come accadde appunto negli Stati Uniti la cui Costituzione del 1787, vecchia di due secoli e mezzo è ancora in piedi, o nella Francia rivoluzionaria del 1791 con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino o nella repubblica napoletana del 1799.
Quando invece la Costituzione è il risultato di una concessione da parte del sovrano, sotto la pressione degli eventi, si tratta di una Costituzione ottriata, cioè appunto concessa. Al riguardo basta ricordare che dopo la caduta di Napoleone, la Carta costituzionale firmata da Luigi XVIII pur confermando alcuni dei diritti conquistati dal popolo francese con la rivoluzione, ne sancì contemporaneamente la natura di concessione (octroyée) e la stessa qualifica fu attribuita alla Carta di Luigi Filippo d’Orléans del 1830, così come a quella concessa in vari stati italiani a cominciare da Napoli, dopo l’effimera repubblica, da Ferdinando II nel 1848, seguito a ruota da Carlo Alberto di Savoia con lo Statuto albertino, rimasto valido fino al fascismo.
Dunque, ristabilita storicamente l’essenza della Costituzione, bisogna subito chiarire che il caso italiano del 2016 non rientra in questi canoni classici passati alla storia. Renzi, ripercorrendo la stessa strada impervia tracciata da Berlusconi nel 2005, vuole affermare un terzo genere, quello della Costituzione imposta ai cittadini attraverso un’indebita forzatura del corpo legislativo, obbligato a votare una radicale riforma che trasforma la repubblica parlamentare in una repubblica autoritaria, con l’aggiunta dell’insolenza di aver paragonato i Senatori ai “tacchini che festeggiano il Natale del loro estremo sacrificio”.
Il Parlamento, fatto per lo più di voltagabbana e di ignoranti, di opportunisti e di professionisti del potere, dimostratosi succube, ha rifiutato di combattere contro la sfida del primo ministro che ha brandito la spada di Damocle dell’interruzione della legislatura, che avrebbe significato la perdita di tre anni di prebende e di benefit da ruota della fortuna, con il pericolo anzi la certezza di non riagganciare più una simile cuccagna, ed ha approvato un testo pieno di sciocchezze.
Già dieci anni fa il gruppetto Bossi-Calderoli-Maroni-Tremonti-Ghedini, con la benedizione di Berlusconi, in una baita dalle parti di Lorenzago di Cadore e Ponte di Legno, alternando grappini a fette di bresaola, aveva predisposto una riforma costituzionale di stampo autoritario che fu bocciata dal referendum popolare del giugno 2006 da oltre il 61,3% degli oltre 25 milioni di elettori votanti. I cittadini intenzionati a difendere ciò che era stato conquistato a prezzo di tanti sacrifici e lutti dopo la fine della II guerra mondiale la ritennero assolutamente inaccettabile.
A quel gruppetto si è ora sostituito un trio delle meraviglie Renzi-Boschi-Verdini, questa volta con la benedizione di Napolitano, restio a rassegnarsi a fare il pensionato, che ha prodotto un testo ancora più traballante, incongruo e sgangherato.
Il primo ministro, afflitto da un ego smisurato, per nulla incline a riflettere sul fatto che il suo modello costituzionale è stato approvato con il forcipe da una maggioranza ondivaga e sempre più risicata nei vari passaggi, anziché da un vasto schieramento politico-culturale come vorrebbe una Costituzione fatta per il popolo e non per una parte di esso, ha attribuito al referendum confermativo una connotazione tipo duello rusticano. Anziché invitare i cittadini ad esprimersi nel merito viene scodellata la formula “con me” o “contro di me”, ammonendo che ove dovesse prevalere il “NO” sarebbe pronto a lasciare la politica.
Questa personalizzazione con caratteristica plebiscitaria su una scelta politica decisiva per le future generazioni toglie al cittadino la serenità di valutare se l’aggiornamento della Costituzione sia davvero un miglioramento o invece ne costituisca un peggioramento e se i principi e i diritti fondamentali finiscano per essere rafforzati o depotenziati a favore di una contingente maggioranza politica che domani potrebbe fare esattamente il contrario.
Il premier si mostra sempre più incapace di un’analisi neutra: affetto dalla sindrome del tweet non elabora più un pensiero politico, ma si esprime solo per slogan entro i 144 caratteri, per annunci che si perdono puntualmente nell’etere, per metafore ripetitive, per diapositive di tipo aziendale i cui pilastri propagandistici sono: “meno spese”, oppure ”tempi rapidi per le leggi”, oppure “fine del bicameralismo perfetto” oppure “abolizione del Senato” oppure ancora “maggiore velocità nel procedimento legislativo!”. Tutte mezze verità se non addirittura grossolane bugie e mistificazioni.
Su suo ordine siamo tornati indietro nel tempo al catechismo politico del ventennio con i volontari, sorta di versione aggiornata del Minculpop, che dovranno bussare porta a porta, e con la distribuzione alle scuole di un vademecum che esalti gli aspetti positivi della riforma. Si tratta invece dei soliti ingannevoli spot pubblicitari ripetuti a macchinetta anche dalle varie favorite del principe, (Boschi in testa, Serracchiani, Picierno, Morani, Rotta, Puglisi ecc.) e da qualche pasdaran (Romano, Fiano, Esposito, ecc.) che in ogni talk show tentano di accreditare l’idea di un futuro radioso per il nostro paese, reso più moderno ed efficiente grazie alla riforma che porta la firma del primo ministro!
Se Renzi avesse studiato meglio gli atti del 1947 dell’Assemblea costituente (composta da 556 persone altamente qualificate sul piano culturale, giuridico, politico, dei diritti, emeriti cattedratici e accademici dei Lincei e combattenti per la democrazia e la libertà) avrebbe almeno notato che i banchi del Governo durante le votazioni erano permanentemente vuoti perché si trattava di un’iniziativa parlamentare.
Come abbiamo visto in premessa, la Costituzione è una materia che non ha nulla a che vedere con le funzioni del Governo e quello attuale, per giunta nato da una maggioranza partorita da una legge dichiarata incostituzionale e rabberciata con il sostegno dei nemici ante elezioni, non può essere considerato l’organo “costituente”. Dunque non è tollerabile che su questa materia sia stata posta la questione di fiducia che ha ghigliottinato il dibattito parlamentare né che il supremo garante della Costituzione non abbia sentito il dovere di dire una parola intento com’è a scrutare la Luna.
Tra pochi mesi ogni cittadino sano di mente avrà il diritto-dovere di “schierarsi” sulle regole fondamentali della repubblica, senza rinunciare alla sua libertà morale e indipendenza di giudizio.
Per questo bisogna spiegare ovunque sia possibile, usando tutti gli strumenti utili, dal vecchio volantinaggio al passa parola, alle applicazioni informatiche e alle moderne tecnologie, le argomentate ragioni del “No”, già sottoscritte da 56 costituzionalisti, tra cui 11 ex presidenti della Consulta, auspicando che il mondo dell’informazione televisiva e della carta stampata non si limiti a coprire pudicamente, utilizzando le veline del governo, il pericolo dello squilibrio tra le Istituzioni dello Stato e l’eccessiva concentrazione del potere nelle mani del premier o del partito di minoranza, trasformato di colpo, in modo antidemocratico, in maggioranza politica.
Prima di fare un esercizio di quanto il testo proposto sia intellegibile da parte del comune lettore, vorrei sottolineare che il nuovo Senato, propagandato come espressione del regionalismo, in realtà sarà un’Assemblea di secondo rango, ridimensionata come valenza al livello di super-Provincia (la loro abolizione appare ancora fittizia mentre i prefetti sono sempre al loro posto) e mortificata dal fatto che l’autonomia legislativa delle Regioni sarà praticamente ridotta al lumicino mentre al contrario si preannuncia altissimo il rischio di contenzioso tra Stato e le Regioni proprio sull’interpretazione delle competenze. A questo punto l’operazione di tenere in piedi, svuotati di poteri, i carrozzoni regionali, rivelatisi i centri di una profonda corruzione su cui la magistratura non ha trovato lo sbarramento dell’immunità parlamentare, rappresenterà un costo elevatissimo ed uno spreco insopportabile per la nazione, molto più oneroso del modesto risparmio derivante dalla magra economia della riduzione del numero dei senatori. E tanto per non farsi mancare nulla sul piano della vergogna, ai fortunati 95 consiglieri regionali e sindaci che saranno spediti a Palazzo Madama viene garantito l’ombrello dell’immunità parlamentare.
Questa riforma, – si accettano scommesse -, è stata approvata senza essere stata letta da tanti parlamentari o, se letta, non è stata capita non solo dai tipi alla Razzi, ma nemmeno da chi ha una cultura media dato che è scritta in un italiano incerto e cervellotico, concepito da una mente provinciale e burocratica che si vorrebbe superata, in puro stile da avvocato Azzeccagarbugli.
Una prova dell’opacità con cui ci si esprime verso il cittadino?
Provate a leggere l’art. 70 della Costituzione del 1947, composto di 9 parole: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” e confrontatelo con la nuova versione di ben 440 parole qui sotto riportata:
1. L’articolo 70 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 70. – La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma; 80, secondo periodo; 114, terzo comma; 116, terzo comma; 117, quinto e nono comma; 119, sesto comma; 120, secondo comma; 122, primo comma; 132, secondo comma.
Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma. Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati.
Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata.
L’esame del Senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione all’articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione.
Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti.
I disegni di legge di cui all’articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione.
I Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti.
Il Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all’esame della Camera dei deputati».
Siete ancora vivi? Avete superato indenni questa dura prova senza essere andati in tilt? Bene.
Avrete certamente notato che da un unico sistema di approvazione delle leggi si passa ora a ben 12 diverse tipologie, con le stesse lungaggini procedurali, ma non è finita perché ora vi attende il puntuale confronto con alcune delle principali fandonie attraverso qualche altro esempio pratico.
L’art. 1 che modifica il vecchio 55, chiarisce che il Senato (dunque è una fandonia l’annuncio della sua abolizione, mentre è vero che finisce il bicameralismo perfetto per inaugurare quello imperfetto), espressione delle istanze regionali, non è più titolare del potere di concedere la fiducia al Governo. E questo era un pallino di Renzi sin dal primo giorno del suo mandato che non c’entra nulla con i diritti dei cittadini, né con lo snellimento delle strutture della Repubblica.
L’art. 2 che modifica il vecchio 57, stabilisce due cose: che la durata del mandato dei Senatori non coincide con quella dei Deputati, ma con quella degli organi territoriali di provenienza e che con futura legge, da approvarsi da parte di entrambe le Camere attuali, saranno regolate le modalità di attribuzione dei seggi dei Senatori. Tradotto vuol dire che con la decadenza per qualsiasi motivo di un consiglio regionale o di una giunta comunale quei Senatori espressione del territorio cessano dalle loro funzioni e che le Camere attuali dovranno varare una legge per stabilire l’assegnazione dei seggi senatoriali. Inoltre allo scioglimento per fine legislatura della Camera non corrisponde quella del Senato sicché le elezioni politiche potrebbero dare alla Camera una maggiorana diversa da quella del Senato. Vi pare logico?
L’art. 53 che modifica il vecchio 59, conferisce al Presidente della Repubblica il potere di nomina per meriti speciali di 5 senatori che restano in carica per 7 anni, quindi per un tempo molto più ampio degli altri colleghi Senatori. A questo punto ci sarebbe da domandarsi che cosa c’entrino con l’espressione delle istanze territoriali regionali i Senatori di nomina presidenziale (retaggio duro a morire di prerogativa regia).
Nella costituzione del 1947 il Presidente della Repubblica aveva il potere di nominare 5 senatori a vita che si aggiungevano al numero dei componenti fissato in 315, ma un conto è aggiungere 5 persone ad un collegio di 315, mentre altra cosa è aggiungerne 5 a 95. Praticamente si passa da un potere di controllo presidenziale dell’1,58% del Senato ad un più ampio 5,26%. E non c’è dubbio che questa norma sia stata scritta quando Napolitano era ancora in carica, data la sua ambizione egemonica di controllo su tutto.
L’art. 5 che modifica il vecchio 63, attribuisce al regolamento il potere di stabilire in quali casi l’elezione o la nomina alle cariche degli organi del Senato possano essere limitate in ragione dell’esercizio delle funzioni di governo regionale e locale. Dunque appare evidente che chi è eletto a cariche locali poi si trova a dover esercitare due mandati (uno locale e l’altro nazionale), ma siccome le ore della giornata non sono dilatabili ecco che il regolamento dovrà limitare il cumulo di cariche.
L’art. 6 che modifica il vecchio 64, impone ai Senatori di partecipare alle sedute dell’Assemblea e ai lavori di Commissione. Allora il Sindaco, o il Consigliere regionale, che non ha il dono dell’ubiquità, sarà costretto a pretermettere questa funzione a quella del governo locale e a disertarne gli impegni con buona pace dell’efficienza amministrativa e della soddisfazione dei cittadini.
L’art. 11 che modifica il vecchio 71, stabilisce che le leggi di iniziativa popolare abbiano bisogno di 150.000 firme e lascia ai regolamenti parlamentari di stabilire i tempi di discussione. Quindi l’esercizio del diritto popolare, codificato dal 1947, di proporre un testo con 50.000 firme viene reso molto più difficile innalzando di tre volte il limite, senza considerare che fino ad ora tutte le proposte di iniziativa popolare sono sempre rimaste nel cassetto.
L’art. 13 che modifica il vecchio 73, introduce l’esame di costituzionalità preventivo da parte della Corte Costituzionale per le leggi elettorali. Implicitamente il Parlamento ammette di essere incapace di produrre una legge elettorale che risponda sicuramente ai requisiti di costituzionalità.
L’art.19 che modifica il vecchio 80, stabilisce che i trattati internazionali sono ratificati solo dalla Camera, mentre quelli europei anche dal Senato. A questo punto vi domanderete il perché di questa disparità di trattamento. La risposta cervellotica sta nel fatto che al Senato viene riconosciuta una competenza territoriale e quindi per la proprietà transitiva una competenza europea.
L’art. 21 che modifica il vecchio 83, stabilisce che per l’elezione del Presidente della Repubblica dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei 3/5 dell’Assemblea (cioè 420 voti) e dal settimo scrutinio in poi i 3/5 dei votanti, senza specificare una soglia minima di numero legale. Avete capito bene: se al settimo scrutinio si presentano solo i 340 deputati del partito di maggioranza possono tranquillamente eleggere il Capo dello Stato anche se sono largamente al di sotto del 50% dei componenti dell’Assemblea.
L’art. 31 che modifica il vecchio 117, elenca tutte le materie di competenza esclusiva dello Stato. E’ un elenco lunghissimo che spazia dall’economia al turismo, dalla difesa alla ricerca, dalla moneta alle assicurazioni, dall’istruzione alla sicurezza, dalle comunicazioni all’energia ecc. Tanto valeva indicare solo le materie residuali riservate alle Regioni.
L’art. 39 delle disposizioni transitorie fa salve le posizioni degli attuali senatori a vita. C’era da giurarlo che Napolitano non avrebbe rinunciato al suo laticlavio a al privilegio di questa lauta sinecura.
Dopo tutto quanto riassunto sopra c’è ancora qualcuno pronto a perdere di vista l’orizzonte dei diritti del cittadino e accettare di rendersi complice di una riforma assurda, incoerente che sfigura i lineamenti della nostra democrazia?
Torquato Cardilli