Roma: la Chiesa dei Cappuccini ed Alessandro Sobieski
Il monumento ad Alessandro Sobieski e la CHIESA dei CAPPUCCINI in via Veneto
_______________________________________________________________________________ Padre Rinaldo CORDOVANI
Il 10 marzo scorso è stata riaperta al pubblico la chiesa dei cappuccini in via Vittorio Veneto. Sono intervenute molte autorità dei Beni Culturali, del Fondo Edifici di Culto, personalità del mondo della cultura e dall’arte in particolare, ma soprattutto molta gente, che da tempo aspettava questo momento per tornarci a pregare e a contemplare le molte opere d’arte che vi sono esposte. L’evento, enfatizzato dai mass media, ha risvegliato l’interesse dei fedeli e dei turisti per questa chiesa, ora più visitata che mai.
Il restauro ha riguardato l’insieme della struttura secentesca: volta, pareti, pavimento, legni, monumenti e dipinti. I devoti e i visitatori ammirano questa bellezza ritrovata, conservata fin dalla fondazione dai frati cappuccini, i quali, negli anni venti del secolo scorso, l’hanno salvata dall’abbattimento previsto dal Piano Regolatore, grazie alla presenza del Monumento ad Alessandro Sobieski.
Costruita per volontà di Urbano VIII Barberini, che benedisse la prima pietra il 4 ottobre 1626, e finanziata da suo fratello cardinale Antonio, frate cappuccino, la chiesa è stata arricchita, fin dalle origini, di prestigiose opere d’arte, quali San Michele Arcangelo di Guido Reni, San Paolo che incontra Anania di Pietro Berettini da Cortona, Estasi di San Francesco del Domenichino, sant’Antonio che risuscita un morto del Sacchi, il quale ha dipinto anche la pala dell’altare di San Bonaventura, la Natività del Lanfranco, San Francesco che riceve le stimmate del Muziano e altri ancora.
Il restauro ha riservato anche qualche gradita sorpresa, come il crocifisso ligneo di fine cinquecento d’ispirazione michelangiolesca e il calco della statua della Madonna del Maini, opere prestigiose, coperte da strati di vernici e deteriorati dalla patina nera del tempo.
Questa chiesa è nota ai turisti, soprattutto per la Cripta, dove sono sepolti i religiosi cappuccini, con le ossa dei quali un artista della metà del 1700, ornò pareti e volte con disegni e forme che sono un inno straordinario alla vita nel segno cristiano della morte – francescanamente cantata come sorella – della resurrezione e dell’eternità.
Con il restauro e la riapertura della chiesa, si è completato il percorso museale che, partendo dal museo, attraverso la Cripta, termina nella chiesa, cioè nel segno della bellezza, in cui anche le altre due strutture assumo significato e senso compiuto.
Alessandro Sobieski
La chiesa dei cappuccini – con questo nome i romani la conoscono – deve la sua sopravvivenza ad un monumento che in se stessa racchiude: quello posto in fondo, a sinistra, accanto all’arco del presbiterio. E’ il monumento ad Alessandro Sobieski (1677-1714), figlio di Giovanni III Sobieski (1624-1696), che l’11 settembre 1683, con la battaglia di Vienna arrestò l’avanzata dell’esercito ottomano verso l’Europa. Giovanni III fu l’ultimo RE di POLONIA, dotato di grande personalità, soprattutto militare, fu protagonista e artefice degli ultimi splendori del Regno di Polonia.
Dopo la sua morte, fu eletto Re di Polonia Federico Augusto di Sassonia. La moglie di Giovanni III Sobieski, Marie Casimire Louise de la Grange d’Arquien (1641 – 1716), di nobili origini francesi, emigrò a Roma, dove giunse, assieme al figlio Alessandro, il 2 marzo 1699. Si stabilì prima nel Palazzo Odescalchi al Corso e poi, dal 1702 al 1714, nel Palazzetto Zuccari, poco distante dal convento dei cappuccini. Il 16 giugno 1714 partì per la Francia, sua terra natale. Morì a Blois il 1º gennaio 1716.
A Roma rimase il figlio trentottenne Alessandro, il quale, verso la fine di ottobre e l’inizio di novembre dello stesso anno, si ammalò gravemente.
Il racconto della malattia, della morte e dei funerali del figlio dell’eroe che salvò l’Europa dall’invasione ottomana, è registrato nei documenti conservati nell’Archivio Provinciale dei Cappuccini a Roma. Il Principe, quando vide che la sua malattia si stava aggravando, domenica, 11 novembre, fece chiamare Padre Giuseppe Antonio da Micigliano (+1722), Guardiano del Convento dei Cappuccini di Roma, che lo assistesse spiritualmente, e frate Nicolò da Rieti (+1725), capo infermiere dell’infermeria dello stesso convento, che lo curasse nel corpo.
Il 13 novembre, il Papa Clemente XI convocò Padre Giuseppe Antonio per essere informato delle condizioni di salute del Principe e gli chiese di essere tenuto al corrente degli sviluppi successivi della malattia.
Il monumento funebre
Alessandro morì lunedì, 19 novembre 1714, dopo aver chiesto e ricevuto i Sacramenti. Prima di morire, aveva consegnato al Padre Guardiano il suo testamento e le sue cose, affinché le facesse recapitare ai destinatari.
Padre Giuseppe Antonio scrive nella sua relazione: “Rispetto poi al funerale, dichiarò espressamente di essere sua volontà che il suo real corpo, vestito coll’abito serafico dei Cappuccini e col sacco ai piedi della Compagnia delle Stimmate, di cui era Fratello, fosse portato ed esposto privatamente e senza pompa alcuna, nella chiesa dei Cappuccini di questo Convento di Roma, e sepolto in terra con la sola iscrizione dettata di bocca del medesimo Principe: Vermis in vita, pulvis in morte”.
Invece, per volontà di Papa Clemente XI, i funerali furono solenni e fastosi, per onorare, così, anche il padre del principe, il re Giovanni III di Polonia. Quindi, il corpo del defunto fu spogliato dei vestiti principeschi e rivestito dell’abito dei Cappuccini, come aveva disposto nel suo testamento. Rimase esposto per un giorno e poi fu sepolto nella chiesa. Sulla tomba vi fu posto soltanto un “ornato di stucchi”. Successivamente, il fratello maggiore di Alessandro, Giacomo, vi fece costruire il sepolcro attuale, opera dell’amico scultore Camillo Rusconi (+1728), anche lui sepolto nella stessa chiesa.
Il monumento, in marmo bianco, presenta la classica impostazione piramidale secentesca divisa in due registri dove al centro si delinea un sarcofago essenziale nelle linee con la scritta in lettere di bronzo: Alexander Princeps Regius/ Joannis III Regis Poloniae filius/ ob. die XIX nov./MDCCXIV. In basso il monumento è sorretto dalla forza rapace di un’aquila reale – presente nello stemma dei re polacchi – ad ali spiegate che sembra posarsi in quell’istante, tenendo stretta con gli artigli la preda di un serpente che, mordendo se stesso – simbolo dell’eterno ritorno – pende al centro del basamento. Nella zona superiore, si vede la corona reale deposta sopra un cuscino e ai lati sono posati due piccoli angeli alati che nei loro atteggiamenti esprimono uno, quello a sinistra, commozione e tristezza mentre nella mano regge una fiaccola rovesciata che sta per spegnersi; l’altro, volto allo spettatore, tocca con la mano destra la cornice ovale sovrastante in cui è raffigurato a bassorilievo il principe di profilo con lo sguardo fiero, volto verso l’altare maggiore, circondato da un mantello quasi mosso dal vento. Questo medaglione è sobriamente incorniciato con eleganti fregi che ne delimitano con delicatezza lo spazio. A concludere la scultura l’artista ha posto l’elmo piumato frontalmente in alto e non sul capo del giovane principe, il quale, più che dalle armi, si sentì attratto da una vita semplice e umile.
Le vicende successive di questa chiesa sono legate strettamente a questo monumento funebre. Infatti, dopo l’occupazione di Roma da parte dell’esercito piemontese nel 1870, anche qui vennero promulgate le leggi dello Stato Italiano, che prevedevano la soppressione degli Ordini Religiosi e l’incameramento dei loro beni mobili e immobili. Anche il convento dei cappuccini di Piazza Barberini (ora Via Vittorio Veneto) subì questa sorte. Il Piano Regolatore prevedeva una nuova sistemazione urbanistica della zona, valorizzando particolarmente l’arteria che da Piazza Barberini conduceva a Porta Pinciana e a Villa Borghese. Questo comportava l’abbattimento del convento e della chiesa. Furono presentati vari progetti di utilizzo dell’area del convento e dell’orto. L’architetto Marcello Piacentini preparò alcuni “Studi per il Teatro Massimo di Roma” da realizzarsi sull’area dell’ex convento dei cappuccini. Prima di presentarlo al Comune, si recò personalmente dal Ministro provinciale di allora, p. Igino da Alatri, assicurando che “La Chiesa e tutti gli annessi verrebbero completamente rispettati” e i religiosi avrebbero avuto una sistemazione conveniente. L’architetto presentò il progetto al Comune, ma “venne scartato per il fatto che il perimetro di esso [Teatro Massimo] avrebbe largamente invaso l’area del famoso Piano Regolatore”.
1924. E la chiesa fu salva
Il Ministro provinciale dei cappuccini di allora, Padre Igino da Alatri, racconta in una sua memoria dattiloscritta, che si era alla fine di giugno del 1924. Aveva esplorato tutte le vie possibili per salvare almeno la chiesa, che i cappuccini considerano come la “Chiesa Madre” dell’Ordine.
Dopo un ennesimo tentativo presso il Comm. Saliotti, capo dell’Ufficio Tecnico del Comune di Roma, “ideatore e fanatico promotore” del Piano Regolatore, era tornato in convento con l’animo sconvolto non soltanto per il rifiuto, ma anche per come era stato trattato.
“Volli prendere un po’ di riposo – scrive Padre Igino – ma, visto che ciò era inutile, mi recai in chiesa, in quell’ora del tutto deserta. Dopo una breve visita al Signore, mi recai ai piedi della Madonna della Speranza, e là, vinto dalla passione che mi struggeva, versai abbondanti lagrime, mentre Le rivolgevo le più tenere preghiere. Subito dopo mi avvicinai alle urne di san Felice e del beato Crispino, e, senza sapere che mi dicessi: “E voi anche ‑ esclamai – farete la fine degli altri! Non capite che quella gente non porta alcun rispetto né a frati né a santi? Le vostre ossa non si farà a tempo a portarle in salvo, saranno gettate pel Tritone per essere calpestate dagli zoccoli dei cavalli, se non vi affrettate ad aiutarci”. Mi arrestai ripensando alle parole irriverenti che avevo pronunciato, quando lo sguardo si fermò sul piccolo monumento fatto da Camillo Rusconi sul sepolcro del principe Alessandro, figlio di Re Sobieski, alla base sinistra dell’arco maggiore della chiesa. “Oh! ‑ mi dissi tutto rianimato ‑ non si potrebbe trar partito da questo sepolcro per impaurire quel settario? Non si potrebbe tentare di metter su la colonia polacca e le stesse due rappresentanze che furono e sono sempre così gelose di quel sepolcro?”.
L’idea subito prese piede nella mia mente, e vi riconobbi l’invocato soccorso dei nostri santi Confratelli […] Il mattino seguente mi recai nuovamente al Municipio per tentare quest’ultima pedina. Allorché mi scorse il Regio Commissario [Filippo Cremonesi]: “Ma che cosa cerca, ora? ‑ mi disse spaventatissimo. Se lo vede quell’energumeno [il Comm. Saliotti], lo scaccia fuori. Lo sa che ne ha poco spicce colui?” ‑ Vedrà, Sig. Commissario, che non sarà così. Il disperato ‑ lo sa lei? ‑ pur travolto dalla corrente, si attacca perfino ai fili d’erba! ed io, nella disperata condizione in cui mi trovavo, mi sono attaccato a un tal filo d’erba, e quel suo Capo dell’Ufficio tecnico non riuscirà a spezzare. – Mi dica, mi dica! Di che si tratta? – Mi accompagni. Sig. Commissario, dall’energumeno e … saprà tutto.
Quando, come un umile usciere, mi annunziò all’Ufficio tecnico, quel satanasso del titolare uscì in tutte le furie: “Cosa vuole cotesto frate? Non ho tempo da perdere con lui. Se ne vada via”. ‑ Mi ascolti, signor Capo ‑ gli gridai di fuori ‑. E’ una cosa che potrà interessarla. Gliela dico in due minuti e fuggo.
Mi fulminò col suo sguardo arcigno quasi in atto di sfida, prevedendo che mi apprestavo e sparare una buon’ultima cartuccia. Gli sciorinai, in breve, il fatto nuovo, mentre egli si faceva di mille colori, e conclusi: ‘Ella, ora, si metta in relazione con i capi della colonia polacca o con le ambasciate di quella nazione; io non vorrei aver fastidi con cotesta gente esotica che non conosco. Ed ora me ne vado davvero”.
Se fosse stato morso da una vipera non avrebbe emesso un grido così acuto. “Oh! Vada alla malora, Padre Provinciale! Alla malora!”. Lo lasciai che gridava ancora, con poco invidiabile delizia del Regio Commissario. Compresi che avevo colto nel segno: avevo raggiunto lo scopo” (Igino da Alatri, Croci e delizie del mio provincialato 1922-1925. Dattiloscritto conservato nell’Archivio provinciale dei cappuccini di Roma).
I polacchi
Padre Igino avvertì i capi della colonia polacca a Roma che facessero buona guardia al monumento del figlio del loro Re, per qualche giorno, “con la consegna di rispondere alle richieste che loro venissero fatte, che, essendo egli l’unico figlio del loro eroe nazionale, era da tutti considerato, dopo il padre, il più grande paladino della Polonia”.
Ci furono dei sopralluoghi dei tecnici del Comune, e la chiesa, unica struttura superstite del grande convento seicentesco, non fu abbattuta. In più, si ottenne anche un pezzo di terreno per costruirvi il nuovo stabile a fianco della chiesa, con un consistente contributo finanziario del Comune stesso.
Oggi quella chiesa nella centralissima Via Vittorio Veneto a Roma, è visitata da migliaia di fedeli e di turisti di ogni lingua e di ogni razza. Ne ammirano le numerose opere d’arte e rimangono pensierosi percorrendo “la cripta dei cappuccini”, che conserva, disposte in modo artisticamente francescano, i resti mortali dei frati dal 1500 al 1870.
Forse pochi si soffermano davanti a qual monumento, posto a sinistra sulla base dell’arco del presbiterio. Ma si deve alla persona che vi riposa dal 1714, se ancora è possibile sostare – nel pieno centro della via della “Dolce Vita” – in meditazione e in contemplazione della bellezza ritrova in questo luogo dedicato, in onore dell’Immacolata, a Colui che quando creò il mondo e tutto ciò che è in esso, “vide che ciò che aveva fatto era bello e buono”.