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Sarà l’oro a vincere la disoccupazione

Ricordo quello che probabilmente fu il mio primo incontro con l’arte orafa, in una splendente mattina estiva. Avevo forse undici o dodici anni e mi trovavo a Firenze insieme a mia madre, durante una delle nostre vacanze di agosto. Passammo per Ponte Vecchio, già brulicante di turisti nonostante l’orario mattutino, ricordo il sole che illuminava le vetrine delle botteghe incastonate nei passaggi laterali del ponte, ricordo la meraviglia nello scoprire in ognuna di esse dei piccoli capolavori che mi colpirono più per la loro bellezza artistica che per il loro valore economico.
Sicuramente, a giudicare dalle espressioni di ammirato stupore pronunciate intorno a me in mille altre lingue, non fui l’unica persona a venire catturata quella mattina dal fascino dell’oreficeria, né certamente fui la prima.

Quella che è una delle più durature tra le innumerevoli specializzazioni dell’artigianato ci accompagna infatti fin quasi dall’inizio della nostra storia, spesso correlata strettamente anche alla gioielleria, in cui l’oro ed altri metalli preziosi sapientemente uniti alle gemme danno vita ai manufatti chiamati gioielli. Nella nostra penisola la tradizione orafa è erede diretta di quella etrusca, maestra nella lavorazione a granulazione, confluita poi insieme alla lavorazione di stampo ellenistico nell’arte orafa del periodo romano. I romani furono esperti nelle varie tecniche di lavorazione dell’oro, dalla ‘cera persa’ alla cesellatura, tecniche che continuano ad esistere pressoché inalterate tutt’oggi. Tra la fine dell’età repubblicana e i primi anni dell’età augustea (I secolo a.C – I secolo d.C circa), grazie anche all’apertura di nuovi mercati orientali da cui proveniva la maggior parte delle pietre preziose utilizzate, l’arte orafa romana raggiunse il suo apice: splendide testimonianze della maestria degli artigiani del tempo possono essere rintracciate negli affreschi e negli scavi della zona di Pompei ed Ercolano, da cui sono emersi raffinati monili in oro e pietre o pasta di vetro.
Crollato l’impero, l’oreficeria continuò a vivere spesso accompagnata ad altre arti: i bizantini fecero largo uso di oro, e a volta anche di pietre dure o semipreziose, nei loro mosaici e, per tutto il periodo medioevale (anche grazie alla scuola senese, che con tecniche innovative e raffinatissime fece raggiungere all’arte orafa un livello di eccellenza tale da collocarla sullo stesso piano della pittura e della scultura), orafi Goti, Franchi e Longobardi crearono opere di altissima fattura che spesso finirono per ornare chiese, cattedrali e abbazie. Il Rinascimento donò a quest’arte un ulteriore impulso creativo. In questo periodo infatti si rafforzò ulteriormente il legame tra l’oreficeria e le arti figurative e non fu infrequente per pittori e scultori (Donatello, Gentili, Cellini) realizzare opere di grande valore in oro o argento. Nei secoli successivi il commercio con i nuovi territori scoperti portò all’impiego di nuovi materiali e ad una maggiore diffusione di gioielli presso le corti reali europee e la fascia più alta della borghesia.

In epoca più moderna ecco nascere la pregiatissima Melchiorre e C. (1873) a Valenza, che insieme a Vicenza e ad Arezzo è tutt’ora uno dei tre poli più importanti per quanto riguarda l’oreficeria italiana, anche se non va dimenticato il contributo della zona di Torre del Greco (Napoli) con le sue eleganti lavorazioni di cammei e Milano, vetrina internazionale per quel che riguarda la compravendita di preziosi.
Arrivando ai giorni nostri, la produzione artigianale orafa ha conosciuto un calo in concomitanza con gli anni ’70, dovuto probabilmente alla concorrenza più agguerrita da parte dell’industria e soprattutto è stato uno dei settori più danneggiati dalla crisi attuale, perdendo tra il 2005 e il 2011 circa il 20% di domanda interna rispetto al periodo pre-crisi ma mostrando negli anni più recenti anche una certa ripresa.
Proprio questo recupero degli ultimi anni potrebbe rappresentare un’opportunità di investimento per quel che riguarda il futuro di moltissimi giovani, attualmente incastrati nel vicolo cieco della disoccupazione, della mancanza di specializzazione e costretti a barcamenarsi tra lavoretti saltuari e poco remunerativi.  Si teme che la generazione attuale compresa tra i 20 e i 35 anni di età, e probabilmente anche quella dei giovani under 20, sarà una generazione con un futuro a rischio, messo a repentaglio da un modello di sviluppo incentrato quasi unicamente sul posto di lavoro in azienda o di ufficio che si è rivelato drammaticamente inadatto a fronteggiare le sfide della modernità. Per troppo tempo abbiamo creduto che il mestiere dell’artigiano, sia esso orafo, intagliatore, conciatore o sarto, fosse destinato a scomparire travolto dall’avanzare dell’industrializzazione e degli oggetti fabbricati in serie.
Eppure proprio l’oreficeria avrebbe dovuto ammonirci: nonostante i colpi della crisi si stima che il 30% dei gioielli circolanti nel mondo siano stati prodotti in Italia, sia da grandi marchi nazionali che da piccoli artigiani locali. I poli orafi di Valenza, Arezzo e Vicenza hanno resistito, seppur stringendo i denti, e continuano a sfornare orafi, ceristi, modellisti, incastonatori e disegnatori di gioielli di alto livello. Sono nate diverse scuole orafe che mirano ad inserire, spesso riuscendoci pienamente, giovani e meno giovani in un mondo creativo ed affascinante, unendo tecniche antiche a tutto il supporto che le tecnologie moderne possono offrire. I nostri artigiani sono richiesti in tutto il mondo, ed apprezzatissimi per la loro preparazione tecnica ed artistica.

Probabilmente l’ancora di salvezza arriverà proprio dal recupero degli antichi mestieri, dal ritorno al ‘saper fare’ con le proprie mani e da una nuova valorizzazione di tutti quei lavori artigianali scioccamente relegati a mere testimonianze di epoche ormai tramontate e che invece non solo continuano a vivere pienamente, ma che potrebbero dare lo slancio necessario a ripartire alla nostra economia.

Valentina Lattanzi

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