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Una Ricetta per le Imprese

Competitività delle imprese italiane, qual’ è la ricetta ?______________________________Enea FRANZ Jr.

Come non condividere gli appelli all’ importanza della crescita di competitività delle imprese italiane,  ma fermiamoci un attimo a ragionare e poniamoci una domanda: in cosa realmente consiste l’essere competitivi in un mondo globale ?

Quando si parla di recupero di competitività si ha in mente in primis il taglio dei costi. In definitiva, per essere più competitive le nostre imprese dovrebbero avere una struttura dei costi più bassa. A questo, in sostanza, nel sentire le richieste degli industriali, si riduce l’appello alla crescita di competitività delle nostre imprese. 

Ma siamo sicuri che la competitività sia un sinonimo di taglio dei costi? Certo che se scegliamo il terreno dei costi, ed in particolare il costo del lavoro , il campo appare quanto mai minato.  Nelle tante statistiche che ci vengono sottoposte dai giornali, infatti, il costo del lavoro, è più alto in Italia che in molti dei paesi d’Europa. Non c’è possibilità via di uscita, peraltro, se poi il confronto lo si fa con i paesi del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina).

Vediamo il costo del lavoro italiano in rapporto a quello europeo: ebbene, esso  è inferiore a quello della Ue a 16 (area euro), di ben 3,80 euro/ora, essendo 24 euro/ora contro 27,8 euro/ora; rispetto alla media della Ue a 27 è invece superiore di 2 euro, essendo quest’ultima di 22 euro/ora, sempre per la presenza di Paesi a basso reddito e sviluppo che abbassano la media. Rispetto agli altri Paesi dell’Europa Occidentale ed in particolare alla Germania e alla Francia, il cui costo del lavoro è rispettivamente di 33,4 euro/ora e di 33,2 euro/ora, il divario è, come abbiamo visto nelle retribuzioni, sempre largamente a sfavore dell’Italia.
Il problema assume dimensioni apocalittiche con riferimento ai citati paesi  BRIC ed, in particolare, alla Cina. Il costo del lavoro (aggiustato per la produttività) in Cina è molto più basso che da noi, addirittura inferiore a 10-30 volte inferiore ai costi dei paesi ricchi. E’ evidente, che allora varrebbe la pena per le imprese italiane chiudere tutti i battenti e uscire dalla produzione.

Peraltro, non è solo sui costo del lavoro che il nostro Paese è messo molto male. Infatti, che dire allora del costo dell’approvvigionamento energetico  o di quello del denaro, sceso al teorico 0,5% da maggio del 2013 ?

Siamo sicuri che il problema della competitività stia solo nei costi? Bene, innanzitutto dobbiamo chiederci cosa significa “essere competitivi”. E’ ovvio ritenere che un’impresa sia competitiva quando ha buoni risultati economici e che fa profitti in condizioni di concorrenza.  Tuttavia, a nostro avviso siamo a metà del vero. Un’azienda è competitiva quando accresce la propria potenzialità di stare sul mercato in maniera economicamente redditizia nel lungo periodo, non quando fa profitti, o cresce maggiormente, dei concorrenti. Per fare un esempio, il miglior maniscalco al mondo il giorno prima dell’avvento su larga scala delle automobili, sicuramente otteneva ottimi profitti personali. Tuttavia, con l’avvento delle automobili, le sue competenze hanno perso progressivamente valore fino a spingerlo ai margini del mercato.

Un’impresa, in definitiva, accresce la propria competitività se è in possesso di un set di asset che le assicurano una maggiore probabilità di stare sul mercato in maniera economicamente redditizia; mi riferisco alla capacità di innovare, di soddisfare i propri clienti e fidelizzarli, alla reputazione sul mercato e nei confronti degli operatori finanziari, alla cultura aziendale che sa valorizzare le competenze dei collaboratori, e così via.

La competitività basata solo sui costi in un mondo globalizzato che ha (inopinatamente) aperto le porte a paesi che effettuano una massiva e spregiudicata utilizzo dei fattori della produzione (in primo luogo sul lavoro)  è quindi il retaggio di un mondo che in larga parte non esiste più.

Non che non sia importante, solo che non rappresenta più l’unico fattore competitivo.  Un tempo, quando i mercati erano più stabili, un’impresa efficiente era anche competitiva. Da qui l’ossessiva ricerca del taglio dei costi. Oggi, nei mercati altamente turbolenti, in cui vi è un continuo rischio di salto tecnologico, di cambio di regolamenti, ed entrata di nuovi concorrenti, l’efficienza è solo una delle tante arme.  Conta, pertanto, molto di più la flessibilità strategica ed organizzativa dell’impresa, che si ottiene quando l’impresa possiede ridondanza di asset. In particolare, conta il supporto che le imprese possono avere dalla Stato in termini di appoggio e sostegno organizzativo e di relazione con il Paese d’esportazione, in modo tale che possano abbattersi i costi di penetrazione e di garanzia nei confronti delle controversie sempre possibili nel campo degli scambi.

Peraltro, andando alla radice del termine, il verbo latino “competere” significa andare insieme, far convergere in un medesimo punto, ossia mirare ad un obiettivo comune e quindi anche gareggiare. E qual è la finalità di una “competizione” se non quella di far vincere il migliore, ossia la persona o la squadra più capace, o meglio, più competente? Una sfumatura molto interessante del significato di competente è quella di “adeguato, proporzionato, appropriato“.

La competenza quindi non è direttamente proporzionale alla quantità di conoscenze e di abilità che possediamo (né tantomeno ai titoli che possiamo ascrivere nel nostro curriculum, sic!), quanto piuttosto alla capacità di saperli applicare e adattare alle varie situazioni e contesti. Se le imprese italiane pensano di rimanere sul mercato solo sulla base della concorrenzialità della loro struttura dei costi si mettono in diretta concorrenza con le imprese cinesi e indiane, con il rischio di gareggiare ad armi impari.  Il terreno della lotta si deve spostare quindi sulla competenza, ovvero, sul “saper fare bene una cosa”, essere “preparati” ed “esperti” in un determinato settore o attività.

Facciamo l’esempio classico dell’automobile: che cosa significa avere la competenza di guida? Sicuramente non basta conoscere il funzionamento della macchina, conoscere il codice della strada ed essere in possesso della patente!

Guidare un’autovettura rappresenta di fatto una competenza che sottende più conoscenze e capacità che vengono orchestrate contemporaneamente. Non si tratta solo di coordinare la frizione e l’acceleratore ma anche di mantenere la direzione, controllare le condizioni della strada e del traffico, fare attenzione ai pedoni che attraversano, ecc. Quindi saremo tanto più competenti alla guida quanto più saremo capaci di adattare i nostri comportamenti ed il nostro stile di guida alla varie situazioni in cui ci troviamo.

Le competenze, in definitiva, si formano dall’ integrazione tra molteplici risorse della persona – e sulle quali lo Stato può e deve intervenire – costituite in modo particolare da nozioni (sapere), da abilità (saper fare) nonché da attitudini e caratteristiche personali (saper essere).

Che cosa rende possibile tale integrazione? Come gli psicologi insegnano, due fattori imprescindibili: l’esperienza e la motivazione. L’esperienza, ripetuta e finalizzata, serve a sviluppare e consolidare la competenza; allenarsi, come sanno bene gli sportivi, significa fondamentalmente sbagliare, fallire, cadere per poi rialzarsi sempre, andando via via ad apprendere gli schemi e le strategie ed affini. La motivazione, invece, costituisce l’energia che innesca il desiderio di iniziare a sperimentarsi e che sostiene l’impegno durante il percorso di apprendimento. La motivazione è strettamente connessa alla convinzione di riuscire, di potercela fare, di essere in grado di ottenere ciò che si vuole grazie alla propria determinazione: in sintesi potremmo dire che il  grado di motivazione è direttamente proporzionale a quelle che vengono chiamate le “convinzioni potenzianti”.
Ed un Paese, come il nostro, ripiegato su se stesso, non può dare stimolo ai suoi cittadini ! Se abbiamo, e i nostri cittadini più illustri hanno aspettative pessimistiche sulle possibilità di riuscita del nostro paese nella competizione mondiale, siamo probabilmente poco motivati !

La ricetta dunque? Semplice ma ineluttabile, ben prima di pensare a qualunque intervento nel settore: scrollarsi di dosso tutti i piagnistei e, con quelli, una classe politica incapace di offrire soluzioni, ma abilissima nel campo della recriminazione. E, si vedrà che –  come recitava una vecchia canzone italiana, resa celebre da Rodolfo De Angelis,  “Ma cos’è questa crisi” – cosi come la crisi si è presentata …  “la crisi passerà”.

 

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