Mutamenti strutturali in Italia a seguito Guerra 1915-18
Sindacato Libero Scrittori italiani – Convegno Nazionale per il centenario della Prima Guerra Mondiale
Scrittori nella mischia e al di sopra della mischia – Roma, 11-13 dicembre 2014
Gaetano Rasi
I mutamenti strutturali prodotti in Italia dalla Guerra 1915-1918
Sommario: 1. L’inizio di una nuova epoca; 2. L’affermarsi di una diversa concezione dell’economia; 3. La rottura dell’unità monetaria internazionale e la pressione delle nuove forze sociali; 4. La preoccupazione inglese per l’affermarsi della potenza tedesca come principale causa economica del conflitto; 5. Il dibattito economico pro Triplice o pro Intesa; 6. L’impegno economico italiano per lo sforzo bellico. L’espansione manifatturiera; 7. La politica agricola e alimentare; 8. La modifica e lo sviluppo del sistema delle infrastrutture; 9. Il finanziamento della guerra all’interno e dall’estero; 10. Le sovvenzioni dello Stato all’economia di guerra; 11. L’emissione supplementare di moneta; 12. La disciplina economico-sociale di guerra; 13. L’avvento dello Stato imprenditore nel pensiero di Pantaleoni, Jannaccone ed Einaudi; 14. I cambiamenti strutturali della società italiana indotti dalla guerra; 15. Il peso politico e sociale dei lavoratori industriali e dei nuovi proprietari agricoli; 16. La nuova classe dirigente; 17. Il ruolo assunto dalle donne e l’amalgama unitaria degli italiani.
1. L’inizio di una nuova epoca.
Nel corso del 2014 si è ripetuto, in varie occasioni e trattando di diverse materie, che la Prima guerra mondiale ha segnato l’inizio di un’epoca nuova. Alla distanza di quegli avvenimenti di un secolo fa non possiamo che confermare questo giudizio. Ne ebbero consapevolezza molti autori già subito dopo la conclusione di quel conflitto. In questa sede mi limiterò soprattutto a coloro che esaminarono gli aspetti economico-sociali. Per esempio Epicarmo Corbino ha chiuso il primo capitolo del quinto volume relativo al periodo 1901-1914 dei suoi Annali dell’Economia Italiana pubblicati nel 1931 con questa frase «Per l’Italia si può dire che il 2 agosto 1914 segni la data dell’inizio del crepuscolo del sistema economico e politico liberale»[1].
Quella data è l’inizio ufficiale della neutralità italiana nei confronti del conflitto che si stava scatenando tra gli Stati dell’Intesa (Russia, Francia e Gran Bretagna) e quelli della Triplice (Austria-Ungheria, Germania, meno Italia). Come è noto – e in questa sede non è il caso di insistervi – quella che fu poi chiamata Prima guerra mondiale ebbe origine dall’attentato di Sarajevo (28 giugno 1914) e dalla dichiarazione di guerra dell’Impero Austro Ungarico alla Serbia, un mese dopo (28 luglio 1914).
In se stessa quella guerra locale poteva rimanere circoscritta ad un episodio della travagliata storia balcanica, ma in conseguenza delle garanzie date – da un lato ai serbi dalla Russia, a sua volta sicura degli appoggi francesi e inglesi e, dall’altro, dalla solidarietà della Germania a favore dell’Austria-Ungheria, sancita nel trattato della Triplice Alleanza – in una settimana tutta l’Europa fu coinvolta nel conflitto.
Non mi soffermo sui dettagli, ma alla distanza di un secolo, non possiamo non riflettere come attualmente ci si trovi in una situazione analoga con la differenza però che allora la situazione riguardava soltanto le nazioni del continente europeo, mentre oggi riguarda sostanzialmente i 5 continenti per i quali una serie di eventi, apparentemente tutti a carattere locale, sono invece nella realtà fra loro collegati e consistono in controversie relative ad enormi interessi e per di più che riguardano una popolazione oggi 16 volte superiore a quella europea di allora (naturalmente mi riferisco alla popolazione che nel 1914 in Europa era di 450 milioni di abitanti e di 2 miliardi la mondiale, mentre adesso la popolazione europea è di oltre 700 milioni e quella mondiale: America, Europa, Asia, Africa e Australia supera i 7 miliardi e 200 milioni di abitanti).
In altre parole le tensioni economiche sottostanti ai rapporti politici che hanno scatenato tanta parte del conflitto svoltosi tra il 1914 e il 1918, unite ai fenomeni allora riguardanti le pressioni circa l’indipendenza delle singole nazionalità, si stanno rivelando in forme enormemente più dilatate – per ragioni demografiche, tecnologiche, sociali e di predominio sui mercati – della stessa pericolosità evolutiva, ma con prevedibili maggiori esiti catastrofici.
Non c’è dubbio che i periodi storici non possono essere fatti iniziare con la precisione temporale alle quale abbiamo fatto riferimento all’inizio, in quanto essi maturano gradualmente nelle epoche precedenti; tuttavia la datazione 1914-1918 va presa in considerazione perché, oltre la vastità e la drammaticità degli eventi, essa rappresenta uno spartiacque tra due periodi, non solo della storia civile, ma anche fra diverse concezioni nel reggimento dei popoli, nei rapporti fra i corpi sociali e nell’influenza della cultura nei confronti dell’economia e viceversa.
Questa consapevolezza fu espressa due decenni dopo anche da Lionel Robbins[2] quando, non diversamente dal Corbino, scriveva che «Il 1914 segna il principio della nostra epoca» a significare proprio il distacco tra la concezione dell’economia come il complesso delle attività di esclusiva competenza della libera iniziativa dei privati e la concezione che invece lo vede oggetto di intervento da parte dello Stato nelle forme e con le motivazioni più diverse. Con lo scoppio della Grande guerra fu introdotto e dilatato, per motivi bellici, un tipo di interventismo mai prima concepito e che in seguito fu adoperato al fine di correggere gli squilibri ciclici e perseguire determinate finalità politiche e sociali.
Prima del 1914 vi furono spesso crisi e cambiamenti e le condizioni esterne delle attività economiche furono continuamente oggetto di innovazioni che mutavano il quadro dell’azione economica stessa. Basti pensare all’avvento nel vecchio mondo delle macchine a vapore, con effetti clamorosi sui costi dei trasporti marittimi (veloci navi a vapore al posto di navi a vela) e terrestri (costruzione delle ferrovie) e delle macchine utensili che trasformano le strutture dell’industria manifatturiera. La popolazione del mondo, che si era mantenuta fino alla fine del XVIII secolo pressoché stazionaria, andò rapidamente crescendo e il suo concentramento nelle grandi città comportò problemi complessi in quanto si dovettero organizzare adeguati sistemi per il rifornimento di derrate prodotte spesso lontano e nei luoghi più disparati.
Tuttavia, malgrado queste crisi, il meccanismo della vita economica si era adeguato alle trasformazioni senza che si verificassero dilanianti tensioni sociali e condizioni generatrici di incertezza nei ceti dirigenti. Va infatti constatato che, di anno in anno, quel sistema economico assicurava alla popolazione, pur crescente, un tenore di vita più elevato.
Josiah Stamp ha calcolato a questo proposito che in Inghilterra il livello dei redditi reali negli anni precedenti la guerra mondiale era quattro volte più alto che nel periodo napoleonico. In Italia, invece, l’unificazione territoriale non aveva portato subito e automaticamente quella maggiore prosperità e quel diffuso benessere che le generose illusioni dei patrioti risorgimentali avevano prospettato. Per avere i benefici effetti della eliminazione delle barriere politiche bisognò attendere almeno un quarantennio e tale ritardo va senz’altro attribuito anche alla frettolosa abolizione delle difese protezionistiche verso le altre nazione che distrusse le fragili strutture industriali, appena avviate, specialmente nel Mezzogiorno.
Tuttavia, pur con un ritardo di oltre mezzo secolo, l’Italia si avviò a una diffusa industrializzazione e a rappresentare una porzione affatto trascurabile nel commercio mondiale tanto che alla vigilia della Prima guerra mondiale ambedue i settori, industriale e del commercio estero, eguagliavano quelli dell’impero austro-ungarico. Alcuni storici hanno rimpianto le condizioni nelle quali si svolsero le attività economiche prima della Grande guerra e, per un fenomeno di estensione della mitizzazione a posteriori, hanno attribuito i caratteri dell’espansione del primo decennio del Novecento a tutto il mezzo secolo precedente. Ma ciò non corrisponde a una giusta valutazione della realtà storica. Proprio tutti gli eventi legati al progresso (diffusione delle nuove tecniche produttive, estensione delle reti di comunicazione, potenziamento dei mezzi di trasporto, accrescimento della mobilità delle merci e delle persone), inserendo le varie economie in un più vasto sistema internazionale di rapporti, producevano quelle interdipendenze dei mercati che trasmettevano ed estendevano gli effetti dei momenti di crisi e di quelli di espansione.
«Le crisi si facevano più brusche e più violente, e anche la possibilità di produrre beni di consumo e beni strumentali a più basso costo in virtù dei sistemi sempre più altamente meccanizzati finiva per migliorare il livello di vita generale delle popolazioni, la perdita del posto di lavoro e il deteriorarsi delle prospettive di occupazione a lungo termine finirono per diffondere un senso di insicurezza molto maggiore di quello esistente nelle tradizionali società agricole»[3].