Canadian Fair Trade Network e l’etichetta che “non racconta tutta la storia”
Un’etichetta che non si limita a riportare la dicitura “100% cotone”, ma che racconta anche la storia degli operai che in Bangladesh, Cambogia e Sierra Leone lavorano duramente in fabbriche dove non sempre i loro diritti vengono rispettati. È la provocatoria iniziativa di Canadian Fair Trade Network con la campagna “L’etichetta non racconta tutta la storia”.
L’obiettivo è di accendere i riflettori sui temi della produzione e fabbricazione dei tessuti sensibilizzando i consumatori sulla provenienza non solo limitandosi a indicare nell’etichetta qual è la sua composizione del capo stesso, ma anche aggiungendo tutta la storia di chi quel capo lo ha realizzato.
C’è la maglia “Made in Sierra Leone by Tejan”, operaio che si è ammalato, lavorando per anni senza nessun tipo di protezione, e la diagnosi è stata di avvelenamento da pesticidi. C’è il capo “Made in Cambodia da Behnly”, giovane operaio di nove anni che si sveglia ogni giorno alle 5 del mattino per raggiungere la fabbrica dove lavora tutto il giorno in uno stanzone caldissimo e senza aria condizionata, immerso nella polvere, per guadagnare meno di un dollaro al giorno.
L’industria dell’abbigliamento rappresenta la più redditizia voce nell’esportazione della Cambogia, ma i lavoratori del settore lavorano per lo più sei giorni a settimana per arrivare a guadagnare circa 100 dollari al mese (dati Clean Clothes Campaign).
Non va meglio in Bangladesh dove, secondo i dati Oxfam, un salario minimo è di 68 dollari al mese. Qui, il tema delle condizioni dei lavoratori nelle fabbriche di abbigliamento è venuto alla ribalta in seguito al crollo dell’edificio Rana Plaza a Dhaka, il 24 aprile del 2013, una tragedia che ha provocato la morte di 1.129 persone.
Per questo ogni etichetta, realizzata per la campagna di sensibilizzazione, oltre alla storia dei lavoratori comprende anche questo messaggio: “È tempo di cambiare. Un acquisto equo e solidale assicura che i lavoratori siano stati compensati in modo equo e non esposti a condizioni di lavoro non sicure”.
articolo via fashionmag