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Anche i cuochi voglio essere fashion

«Gli chef sono i nuovi divi della tv, preparano piatti che sono opere d’arte, ma dovrebbero pensare anche al fashion, al loro modo di proporsi, basta coi grembiuloni bianchi, anonimi, uguali da decenni»: colei che ha dichiarato guerra ai masterchef trasandati si chiama Fiammetta Pancaldi, quarta generazione nel settore della moda. È un’artigiana, dalla sua sartoria (15 dipendenti) escono solo abiti realizzati a mano, a lei si rivolgono i grandi stilisti (da Armani a Worth) per gli abiti da sfilata e le attrici che si debbono pavoneggiare sul red carpet.

Adesso ha deciso di affiancare a questa produzione di nicchia una linea per le boutique (griffe: Melograno, dall’autunno, con un lancio marketing sulla stampa) e di effettuare scorrerie in settori inesplorati, ha rivisitato busti, guepiere, corsetti, stringivita e avvia un esperimento con gli abiti da lavoro attinenti alla cucina, in modo che lo chef (o la chef) siano oltre che bravi pure eleganti. Riuscirà davvero a far nascere una moda tra i fornelli?
Dice: «Può la nostra moda uscire dai suoi ambiti tradizionali e affacciarsi su panorami diversi? Può l’offerta della cucina italiana trovare ulteriori suggestioni dalla contaminazione con la moda? Ci provo con una linea sartoriale di abiti da lavoro per i diversi servizi di ristorazione, così da permettere all’abilità della manifattura italiana di coniugarsi felicemente alla cucina italiana».

L’idea le è venuta con l’approssimarsi dell’Expo. Tutti impegnati per presentare al meglio il cibo ma ha notato l’assenza del fashion, che invece può rappresentare un valore aggiunto. Di qui l’impegno a vestire chef e camerieri. Per raggiungere l’obiettivo si è rivolta alla storica tessitura Monti, nel Veneto, che ha riproposto trame e orditi della metà dell’Ottocento nel cotone Massaua, proprio quello che allora veniva utilizzato dai cuochi nelle cucine dei nobili e che ora viene adattato a giacche e grembiuli, pantaloni e camicie.
«L’obiettivo», aggiunge Fiammetta Pancaldi, «è collegare e contaminare moda e cucina, intrecciando i due punti di forza del Made in Italy. La cura e la sapienza dedicate alla manifattura degli abiti da lavoro può infatti costituire fattore di stimolo per la promozione di un vero e proprio “Italian Style”, inteso come nuovo modo di intendere la convivialità e il saper accogliere e ospitare nel nostro Paese».

Per avviare questo singolare connubio tra cucina e moda, ha ristrutturato una vecchia discoteca alla periferia di Bologna, dove s’è messa a studiare e a realizzare il fashion per cuochi e camerieri. Qui ha trovato posto anche un suo archivio con 2000 pezzi che ripercorrono la storia della moda negli ultimi 50 anni oltre a una scuola (insieme alla Confederazione dell’artigianato) dove viene insegnato il lavoro di sartoria: ago, filo e macchine da cucire, pochissimo computer.

La prima operazione di marketing per fare conoscere questa singolare griffe (Albo, cioè abiti da lavoro fatti a Bologna in sartoria) è in corso, in collaborazione con WineMi, raggruppamento di sei enoteche a Milano, i vestiti di lavoro à la page vengono per la prima volta indossati in occasione delle iniziative realizzate per il fuori-Expo. «La nostra ricerca», conclude, «è finalizzata a rielaborare e arricchire stilisticamente gli abiti da lavoro, facendoli uscire dalle cucine ed entrare nei guardaroba, per un utilizzo nel quotidiano. Per esempio chi si diletta per hobby in cucina potrà ricevere gli amici per una cena orgoglioso di indossare un grembiule d’alta moda. Sa qual è stata una mia grande soddisfazione? Un cuoco che qualche giorno fa mi ha detto: la ringrazio perché finora nessuno aveva pensato a noi».

articolo di Carlo Valentini ripreso da ItaliaOggi