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La Cina è diventata “infedele”

Maturo, sofisticato, selettivo e un po’ infedele. È l’identikit del consumatore cinese di lusso tracciato dagli ultimi studi di mercato. Un profilo con il quale i grandi marchi debbono fare i conti, visto che i cinesi comperano il 29% dei prodotti mondiali nella fascia luxury: il 29% in un’industria del valore globale di 1.385 miliardi di euro nel 2014, secondo i dati del Bcg, il Boston consulting group. Sono 290 miliardi per abbigliamento, orologi, gioielli, cura della persona; 350 miliardi per auto di alta gamma e yacht; 465 miliardi per «lusso esperienziale», ristoranti stellati, prodotti alimentari esclusivi, grandi alberghi; 280 miliardi per arte, alta tecnologia e anche jet privati. «Negli ultimi tre, quattro anni la Cina ha tenuto in piedi i conti del lusso, consentendo profittabilità e crescita», dice Antonio Achille, partner e capo della Luxury practice di Bcg.

Ma ora c’è una domanda che agita i sonni di industriali e designer: sta forse finendo la grande storia d’amore della Cina per il lusso? Qualche crepa si è vista: l’anno scorso in Cina i grandi brand internazionali della moda, orologi e gioielli hanno perso l’11% rispetto al 2013. L’inizio del 2015 non ha dato segni di rilancio: il gigante Lvmh nel primo trimestre ha segnalato un -6% in Asia. I cinesi continuano a comperare, ma il 52% della spesa la fanno all’estero, durante viaggi turistici che si trasformano in tour dello shopping: nel 2014 hanno lasciato nei negozi europei, americani, giapponesi circa 80 miliardi di euro, +9% sul 2013. Se questo dato è positivo per i venditori al dettaglio di città come Milano, Londra o Parigi, è preoccupante per i gruppi che hanno forse investito troppo nel territorio cinese.

Per anni i produttori di lusso hanno imposto a borsette, scarpe, gioielli, orologi e anche automobili sul mercato della Repubblica popolare prezzi tra il 25 e il 40% per cento più alti di quelli in Europa, escludendo le tasse: questa strategia ha regalato margini di profitto che spiegano la grande corsa a Oriente. Con l’indebolimento dell’euro la differenza di prezzo era salita fino al 60%. A questo punto è scattata la nuova «maturità» del consumatore cinese, che viaggia, diserta i negozi in patria e compera in viaggio.

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Il fenomeno non è passato inosservato a Pechino, dove il governo è impegnato in un delicato riequilibrio dell’economia che punta sui consumi interni. Così dal primo giugno la Cina ha dimezzato i dazi sull’import di abbigliamento (dal 14-23% al 7-10%), calzature (dal 24 al 12), cosmetici (dal 5 al 2). Il consumatore cinese di lusso però è maturato anche in un altro senso: non si fa più incantare dal fascino della griffe vistosa, guarda al rapporto qualità-prezzo e questo può renderlo «infedele» rispetto al brand.

La gente che può permettersi il lusso in Cina lo consuma con maggiore accuratezza e parsimonia, più richiamata dal valore estetico che dallo status symbol. «Per compiere questo salto ai giapponesi sono serviti almeno dieci anni, ai cinesi ne sono bastati due o tre», dice Antonio Achille. Vantaggi Il cambiamento è stato accelerato dalla campagna anticorruzione del governo, che ha messo sotto torchio l’esercito dei funzionari statali, abituati a ricevere regali preziosi (o a farseli da soli con i soldi delle tangenti).

Ora l’acquirente cinese di altissima gamma, quello che può permettersi un minimo di 20 mila euro di spesa l’anno in prodotti luxury, per il 60% guarda alla qualità, solo per l’11% è richiamato dal brand. «Non esiste il “tipico acquirente cinese”: sono come lei e me, amano discrezione e qualità», dice al Corriere della Sera Florian Craen, vicepresidente di Hermès, che ha aperto da poco una maison a Shanghai.

Sono necessarie nuove strategie di mercato. La catena di negozi Gucci in Cina ha lanciato a giugno una campagna di saldi fino al 50% sulle borse primavera-estate e a Shanghai, davanti alle sue boutique, si sono formate code. Chanel per la prima volta si è impegnata a proporre un prezzo unico globale. Rallentano anche le vendite di supercar. «La verità è che la mucca cinese da mungere si è stancata di darci un fiume di denaro», ci ha detto un concessionario di vetture premium a Pechino.

L’analisi del Bcg resta positiva: «La mucca non può dare ogni anno il 20% in più, serve solo una strategia raffinata. Un prodotto di qualità anzitutto, un’offerta di esperienza al cliente nei punti di vendita, una correzione del differenziale di prezzo tra Cina e Occidente». I brand italiani, secondo Achille, mantengono ancora un vantaggio sulla concorrenza: il made in Italy suscita emozione, racconta una storia, esisteva già prima del boom cinese. Un altro modo per penetrare o restare sul mercato in un Paese come la Cina dove il potere d’acquisto è in mano soprattutto ai giovani, è l’ecommerce: si calcola che il 60% delle vendite di prodotti di lusso sia influenzato online, l’8% venduto direttamente sul web, il 9% comperato con ecommerce dopo una visita di ricognizione in negozio.

E la Cina sarà capace di proporre suoi brand lussuosi? Sta già accadendo, con prodotti di estetica minimalista e con campagne acquisti. ShangTex, gruppo di Shanghai da 5 miliardi di euro di fatturato, è appena venuto a Milano con l’obiettivo di acquisire aziende della moda e un piano per portare a Shanghai tra i 50 e i 100 giovani designer italiani.

 
articolo di Guido Santevecchi via corriere.it