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La Città Contemporanea

La “CITTA’  (di pietra)  CONTEMPORANEA” 

di Francesco Alessandria*

LA CITTA’  FUORI DAI CONFINI “TRADIZIONALI”     La pressione antropica che deriva dalle immigrazioni in atto (che è ed ha un effetto sociale) si riverbera sulla città fisica contemporanea e ne sollecita l’adeguamento alle necessità sopraggiunte. E non v’è dubbio che la città contemporanea sia vitale. Ciò è riconoscibile dalla continua trasformazione in atto, dovuta oltre che ai movimenti migratori anche ad altri fenomeni: le innovazioni tecnologiche, i mutamenti negli stili di vita, le nuove sensibilità nei confronti dell’ambiente, il costo della città “concentrata”, l’accresciuta mobilità.

Tali fattori hanno accelerato i cambiamenti determinando una progressiva diminuzione della popolazione e delle attività che tendono ad espandersi nel territorio, in quella che era la campagna dando luogo  a nuove forme di organizzazioni del territorio e contemporaneamente producendo una modifica del concetto stesso di città e del suo uso.

La città, nel perdere popolazione ed attività, offre un’immagine di sé in crisi. Per oltre tre secoli la città (industriale) si è costantemente trasformata ma mantenendo i propri connotati economici e sociali: alla sua dilatazione non corrispondeva il superamento di un modello, la città continuava, pur nelle sue trasformazioni ad essere se stessa. Il meccanismo economico della grande città assume una caratterizzazione selettiva, rendendo sempre più prezioso lo spazio urbano; vengono espulse le attività che occupano grandi spazi e producono basso valore aggiunto; la popolazione va alla ricerca di tipologie diverse dell’abitare.

L’insieme di questi fenomeni mette in evidenza una significativa modifica strutturale; è il territorio in contenitore di tutto (non più la città) ed esso risulta articolato al suo interno dove, infatti, convivono varie forme di insediamento. In questa nuova forma di organizzazione del territorio sono molto rilevanti i flussi di mobilità delle persone che appaiono pluridirezionali e pluricentrici  sia per lavoro e studio che per motivi diversi (sport, shopping, spettacoli ecc).

LE TRASFORMAZIONI IN ATTO DENTRO I CONFINI TRADIZIONALI    Le città vanno, quindi, convertendosi verso nuovi scenari di modernizzazione e di competitività al fine di offrire cultura mercantile e nuovi luoghi di consumo. Ciò avviene, in modo più marcato, laddove gli amministratori  pongono in primo piano le politiche urbanistiche. E’ consuetudine oramai trovare non solo su riviste specializzate ma anche su quotidiani l’esposizione di proposte di interventi in ambito urbano, sia di riconversione di parti consolidate, sia di nuova espansione, con l’esposizione di progetti che sottolineano e segnalano come le aree urbane siano diventate enormi cantieri attorno ai quali si muovono centinaia di operatori, d’interessi e di capitali.

La nuova imprenditoria edilizia, specie quella affiancata da risorse finanziarie internazionali, ha riscoperto le grandi città italiane rilanciando il fenomeno della rendita fondiaria ed urbana. In effetti sulle grandi aree urbane si riversano, oramai enormi capitali, dirottati da altri investimenti, considerati ad alto rischio[1]. Gli studi di settore evidenziano come il mercato immobiliare sia in enorme crescita con nuovi pieni al posto dei vuoti urbani, con nuovi consumi di territorio a fini edificabili per milioni di metri cubi per nuovi quartieri residenziali, attività terziarie, uffici, centri congressi, spazi intermodali ecc. Poco o nulla attiene, invece, alle politiche abitative pubbliche.

Al centro vi è la valorizzazione della rendita urbana senza pensare in modo  adeguato alla realizzazione di nuovi beni pubblici. Quasi tutti gli interventi riguardano la realizzazione di interventi privati ad alto contenuto economico cui si affiancano anche opere pubbliche od opere private di interesse pubblico, che comprendono, spesso, in modo squilibrato anche la dotazione di spazi pubblici. Se nel riassetto delle aree urbane si mettessero sul piatto gli interventi a favore del pubblico nella realizzazione di spazi e servizi e quelli di carattere privato si potrebbe facilmente constatare che il rapporto è di uno a dieci. Il cittadino nota che la città si rinnova si demolisce e si ricostruisce, si trasformano beni immobili e si occupano aree inedificate, ma nello stesso tempo si moltiplicano le volumetrie riducendo gli spazi aperti. Si assiste quindi a proposte di riconversione di parti di zone, o addirittura di città, produttive dimesse, di edifici pubblici, palazzi storici, caserme, carceri, ospedali, aree ferroviarie indipendentemente  dalla loro destinazione originaria  cogliendo di tali spazi o volumi come dei contenitori all’interno dei quali collocare qualsiasi cosa!

Ed è all’interno di tali aree ed edifici dismessi che trovano allocazione gli immigrati, spesso appena arrivati, creando degli habitat a loro, almeno provvisoriamente, congeniali, ma che non sono e non possono essere la risposta alle esigenze di integrazione ma che, al contrario, costituiscono forme di  esclusione dalla città e dal territorio. Tale operazione sembrerebbe facilitata da una specifica figura professionale che va vieppiù delineandosi, del “mediatore” che dall’interno delle istituzioni svolge il ruolo di interfaccia tra immigrato e Paese ospitante. Il controllo delle attività che svolge il mediatore può fornire gli indicatori per conoscere il livello di integrazione

LE DIFFICOLTA’ ATTUALI DI GOVERNO DELLA TRASFORMAZIONE    I dati delle presenze di immigrati, censiti, esprimono un aumento  esponenziale e consolidano un processo migratorio inarrestabile che conferma la portata epocale del fenomeno. I decisori delle città si trovano, quindi, a dover garantire  condizioni materiali ed organizzative adeguate ad  accogliere i nuovi cittadini (e quindi non solo ospiti temporanei) e devono contribuire alla formazione di nuove cittadinanze secondo il modello che la comunità saprà elaborare e del quale non vi sono tracce degne di rilievo in termini di azioni politiche e provvedimenti legislativi adeguati.

Chi osserva la città rileva che molti degli stranieri giunti in cerca di lavoro si insediano stabilmente modificando la morfologia sociale e la struttura economica e forse, in un futuro non troppo lontano, anche la configurazione fisica di parti di città e di territori. Il fenomeno avviene in forme differenziate (e con evoluzione costante), che spesso sfuggono alle rilevazioni ufficiali e richiedono letture interpretative specifiche. Già ad una prima osservazione ci si accorge di come gli spazi, gli usi pubblici, i tempi di vita ed i calendari delle attività  vadano  ridefinendosi. Si avvertono nuovi problemi, posti dagli immigrati o derivanti dalla loro presenza (conflitti tra residenti, esclusione sociale e necessità di maggiore integrazione, domanda di servizi, disagio abitativo, estensione dei diritti di cittadinanza attiva), che le scienze territoriali devono aiutare a riconoscere ed analizzare.

E’ in atto, per esempio, il fenomeno secondo cui gli immigrati àncorano le loro attività ed i loro momenti di riposo e socializzazione in luoghi in cui detengono il possesso e vanno vieppiù costituendo un proprio territorio entro il quale immaginano di sentirsi sicuri. Nella fase iniziale (ed anche dopo) occupano spazi pubblici abbandonati e residuali in cui si incontrano e svolgono quelle elementari attività sociali che non possono svolgersi in alloggi precari; mentre chi ha conquistato uno spazio privato, che avverte come suo, prende le misure dell’intorno, inizia ad usare l’esterno e rivendica il diritto di costruire una propria geografia della città, entro la quale collocare i luoghi di culto, dello svago, del relax.

E’ certamente difficile capire quali forme fisiche e d’uso generi questo impossessarsi; certo è necessario seguire le tracce di coloro che stanno tentando di radicarsi, indagarne i percorsi e le logiche insediative, descrivendo processi visibili. Potranno tali processi generare isole chiuse o ghetti i quali, se pur determinano fenomeni di segregazione, tuttavia conservano integri e non contaminati valori. Il ghetto, nato per isolare la comunità ebraica dall’insieme della città, diviene una struttura per conservare intatte le caratteristiche culturali iniziali e pertanto un preciso riferimento per il dialogo con altre culture.

Non è chiaro, per esempio se ciascuna etnia segua una traiettoria individuale (Albanesi e Slavi) o se abbiano reale consistenza i casi di colonizzazioni compatte (Cinesi) con conseguenze sociali  e sul territorio certamente rilevanti ma non scontate. Integrazione, inserimento, marginalizzazione, competizione nell’uso degli spazi, conflitti urbani o situazioni felici di convivenza appaiono tutte ipotesi possibili. Senza contare che la presenza di immigrati crea spesso allarme sociale, genera paure, ovvero influisce sul tema della sicurezza, ambito privilegiato di speculazioni d’ogni sorta (anche e soprattutto politiche). Bisogna quindi valutare questi nuovi processi pensando che i metodi interpretativi classici dell’analisi territoriale non sono sufficienti e ne occorrono di nuovi solo in parte deducibili da analoghe esperienze in Europa e nel mondo.

L’urbanistica è chiamata, quindi, a cogliere il senso dei mutamenti in corso, per sostenere gli attori di politiche pubbliche nella ricerca di soluzioni che superino la logica dell’emergenza e proseguano verso la pianificazione della città sicura e inter-etnica.

 

*Architetto, Docente Universitario di Urbanistica – 

Membro dell’Istituto San Benedetto per l’Europalogo_sanbenedetto

 

 


[1] Sono considerati ad alto rischio gli investimenti a carattere specificatamente industriale.