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Primark: il caso dei suoi “pizzini”

A pochi giorni dalla conferma dell’apertura dei primi tre punti vendita Primark in Italia (Roma, Venezia e Milano) scoppia il caso dei “pizzini”. Certo è che quando si parla di pizzini si pensa subito alla mafia ed all’ambiente malavitoso ma a quanto pare non esistono solo là. I pizzini in questione sono ben diversi dagli “originali”, non sono messaggi in codice da decifrare ma richieste di aiuto che si trovano all’interno dell’etichette di capi di abbiagliamento. Al centro della polemica c’è proprio il colosso inglese dell’abbigliamento low cost.

Primark, fondato a Dublino nel 1969, ben presto ha avuto una crescita esponenziale con più di 270 negozi in tutta Europa, grazie al bassissimo costo dei capi che vende affermandosi come un vero e proprio discount della moda. Solo per fare qualche esempio si può acquistare un jeans a 4 euro, un abito a 7, un completino intimo a 5 ed un cappotto a circa 30 euro. Non a caso la maggior parte delle persone che va a fare shopping a Londra parte con le valigie vuote proprio per riempirle da Primark. Difficile comunque non interrogarsi sull’origine dei prezzi così bassi.

I primi messaggi sono stati ritrovati, all’inizio di quest’estate, da due ragazze del Galles che avevano acquistato due capi diversi in un negozio Primark di Swansea. In un inglese un po’ arrangiato, sull’etichette all’interno, si leggeva “condizione degradante fabbrica sfruttatrice” “turni di lavoro estenuanti”. Subito dopo Primark, sul proprio sito rilasciò una dichiarazione nella quale si affermava che il caso delle due etichette, con tutta probabilità, sarebbe stato un imbroglio compiuto nel Regno Unito. La veridicità dei messaggi è stata messa in dubbio ma a prescindere dal caso specifico secondo Riccardo Noury, il portavoce di Amnesty International Italia, non c’era bisogno di questo per sapere che spesso le aziende di abbigliamento ricorrono a centri di produzione che non garantiscono i diritti dei lavoratori e che al di là dell’impegno dell’azienda stessa non esistono criteri che assicurino una produzione etica. Tra l’altro la catena di intermediazione in questa filiera è talmente lunga che chiunque affermi di poter garantire l’assenza di lavoro forzato risulta poco credibile.

Non è la prima volta che Primark finisce sotto i riflettori, già nell’aprile del 2013 quando a Dacca, in Bangladesh, crollò il Rana Plaza (edificio dove si producevano capi di abbigliamento per molte aziende tra cui anche Benetton) gli attivisti e le varie associazioni si scagliarono contro questi giganti –sfruttatori- del tessile.

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A riguardo linko un mio precendte articolo prorpio sul Rana Plaza e la puntata dello scorso 17 marzo di Presa Diretta dal titolo Made in Italy.

https://www.consulpress.eu/fashion-revolution-day/

https://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-32d3b3be-421e-4164-af7b-d75aac92e530.html

photo via google.img