Bansky a Roma
È ufficiale: dal 24 maggio Roma ospiterà la più grande mostra mai realizzata al mondo su Banksy. Una comunicazione che arriva all’ultimo momento, fatta ad hoc per rispecchiare lo stile del “noto ignoto”, la figura più iconica della street art che, nonostante il successo planetario continua a vivere nell’anonimato. Dal titolo “War, Capitalism & Liberty”, la mostra sarà fino al 4 settembre presso il Museo Fondazione Roma, a Palazzo Cipolla, in via del Corso, a cura di Stefano Antonelli e Francesca Mezzano, fondatori di 999Contemporary, e di Acoris Andipa, della Andipa Gallery di Londra, galleria di riferimento dell’artista inglese. Centocinquanta opere, nessuna “strappata” ai muri ma tutte provenienti da collezioni private.
Oltre ad essere la prima volta che così tanti dipinti di Banksy si trovano insieme, è anche la prima volta che il Museo Fondazione Roma apre alla street art, ma il connubio era nell’aria: la Fondazione è infatti stata tra i finanziatori del progetto dei murales di Tor Marancia “Big City Life”, curato da 999Contemporary. Come suggerito dal titolo, la mostra sarà divisa in tre aree tematiche (guerra, capitalismo e libertà) e prevede un grande spazio educativo pensato per le visite scolastiche e uno, più piccolo, dedicato agli adulti.
Contrariamente ai tentativi che da anni vengono portati avanti per smascherare la vera identità di Banksy, il focus dell’esibizione non è quello di indagare sulla misteriosa figura del writer di Bristol, ma cercare di far luce sul suo linguaggio e sul segreto del suo successo come comunicatore ancor prima che artista. Anche perché, che Bansky sia o non sia Robin Gunningham – come rivelato dall’ultimo tentativo, in marzo, fatto dalla Queen Mary University, grazie alla tecnica del geographic profiling, utilizzata nel campo della criminologia – poco importa.
Banksy è una contraddizione vivente. Una persona reale seppur impalpabile (l’unico modo per mettersi in contatto con lui è un indirizzo email), che fa arte illegale ma che allo stesso tempo vende le sue opere a prezzi da capogiro (i suoi quadri arrivano al mezzo milione di euro), addirittura con un sistema online chiamato “Pest control”, certifica un suo quadro autentico da un falso. Un paradosso che rispecchia la società nella quale si muove. E non è un caso che più che piacere ai critici d’arte, l’artista parli alla pancia delle persone. Basti pensare come il suo recente stencil a Calais ispirato a Les Misérables sia diventato il simbolo della tragedia dei migranti. Come ha fatto a Dismaland, il distopico “parco divertimenti” da lui progettato lo scorso anno e aperto per un solo mese nella contea di Somerset, in Inghilterra, è prevedibile che l’artista venga, di nascosto, a visitare la mostra. E chissà che non lasci un nuovo segno indelebile nella Capitale.
fonte Repubblica