La MEDIAZIONE nella sua APPLICAZIONE al CONDOMINIO
Convegno “Condominio e Mediazione”
Un incontro per discutere insieme della mediazione, della sua applicazione al Condominio,
delle implicazioni per gli Amministratori ed i Condomini.
4 Maggio ore 17:30 hotel Pineta Palace
Amministratori Immobiliari Associati _ Via V. Troya,23c Tel./fax: 06/89.52.84.37 www.aima.roma.it – info@aima.roma.it
Premessa.
L’entrata in vigore del d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28, con il quale è stata recepita la Direttiva 2008/532/CE, ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto della mediazione civile e commerciale quale nuovo strumento di risoluzione alternativa delle controversie.
Il decreto cosiddetto “Milleproroghe” (legge10 del 26 febbraio 2011, comma 16-decies) ha spostato di un anno (20 marzo 2012) l’entrata in vigore della mediazione obbligatoria per le controversie in materia di condominio. Tale decreto legislativo ha compreso, all’art. 5 comma1, le liti condominiali tra quelle per le quali la procedibilità della domanda giudiziale è subordinata all’esperimento del tentativo di conciliazione.
A questo punto è necessario comprendere quali procedimenti possono essere considerati condominiali, infatti tutti quelli che riguardano i rapporti tra i condomini, tra i condomini e il condominio o l’amministratore sono senza dubbio definibili “condominiali”, cosa ben diversa quando il procedimento riguarda un terzo (ad esempio un fornitore non saldato o che non ha eseguito il lavoro in conformità al contratto di appalto) ed il condominio.
Il riferimento e’ il primo comma dell’art. 5 d.lgs. n. 28/10 a norma del quale “chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali,…… e’ tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto. L’esperimento del procedimento di mediazione e’ condizione di procedibilità della domanda giudiziale”.
1. Le “controversie in materia di condominio.”
In mancanza, ancora, di una consolidata prassi applicativa, è bene chiedersi innanzitutto cosa si debba o possa intendersi per “controversie in materia di condominio”, termine utilizzato all’art. 5, comma 1 del d.lgs. 28/2010 nell’elencazione delle materie soggette al tentativo obbligatorio di conciliazione. E’ all’uopo opportuno chiarire il concetto di “condominio”.
L’ordinamento non ne dà un definizione, bensì si limita ad enunciare all’art. 1117 c.c. le parti comuni dei proprietari dei piani o porzioni di piano di un edificio. E’ da qui che si sono sviluppate le varie correnti di pensiero che hanno tentato di riempire di contenuto un concetto tanto astratto.
Si può dire che il condominio si realizza ogniqualvolta una proprietà individuale divenga plurima per effetto di uno o più atti di frazionamento in due o più unità immobiliari, la cui proprietà venga trasferita a soggetti diversi, venendosi così a determinare la coesistenza di un diritto di proprietà esclusivo, spettante ai singoli proprietari sulle rispettive unità immobiliari, con un diritto di comproprietà loro spettante su quelle parti dell’edificio che, ex art. 1117 c.c., sono da intendersi comuni a tutti.
Il condominio quale “ente di gestione” sprovvisto di personalità giuridica e senza autonomia patrimoniale, opera per la conservazione delle parti comuni dell’edificio e della funzionalità dei servizi nell’interesse comune di tutti i partecipanti, pur senza interferire nei diritti autonomi di ciascun condomino.
Non si ravvisano, dunque, particolari problemi per comprendere nella “materia condominiale” tutte le controversie che abbiano ad oggetto le parti comuni dell’edificio, si instaurino nei rapporti tra condomini o tra questi e terzi estranei al condominio, e siano relative a diritti reali o di godimento su di esse (anzi, relative solo a quest’ultimi, considerato che le controversie in materia di diritti reali sono di per sé soggette all’obbligatorietà del tentativo di conciliazione).
Escludendo dal novero le controversie sui diritti reali, si eliminano quelle tra il condominio e i terzi, siano o no relative a parti comuni dell’edificio. I rapporti tra il condominio e i terzi sono regolamentati dai negozi tra di essi in essere, con la conseguenza che le relative controversie troveranno fonte ed esaurimento nelle norme che li disciplinano e non in quelle che regolano il condominio negli edifici. Per citare un esempio: la controversia relativa all’esecuzione di un appalto concluso tra il condominio e un terzo appaltatore per il rifacimento del tetto condominiale, resterà relegata e decisa in base alle clausole negoziali e agli artt. 1655 e segg. c.c., ancorché interessi una parte comune dell’edificio; un ragionamento analogo si può fare anche in tema di responsabilità extracontrattuale del condominio, quale potrebbe essere nel caso del danno arrecato a terzi in conseguenza della caduta di un cornicione dell’edificio, poiché in tale ipotesi i rapporti tra le parti trovano la propria disciplina negli artt. 2043 e segg. c.c., benché pertinenti una parte comune dello stabile condominiale.
Perplessità non ne destano invece le delibere assembleari: le norme in materia di quorum costitutivi e deliberativi assembleari, al pari delle altre che disciplinano il funzionamento di tale organo, sono connaturali al concetto stesso di condominio, essendo l’assemblea l’organo attraverso il quale si forma la volontà di coloro che vi partecipano. Nei casi di controversie in materia di indennità per la sopraelevazione, che ai sensi dell’art. 1127, comma 4 c.c. dev’essere corrisposta agli altri condomini da quello che realizzi la costruzione a proprio vantaggio, non si verte in tema di godimento e gestione in senso stretto delle parti comuni dell’edificio, tanto è vero che in giurisprudenza è stato affermato che la domanda di determinazione dell’indennità, attendendo non a un’azione svolta nell’interesse del condominio e a tutela di beni comuni, bensì al fine di far valere diritti individuali dei singoli condomini, deve intendersi spiegata soltanto per conto di quei partecipanti all’assemblea che abbiano conferito mandato all’amministratore; (Cassazione civ., sez. II, 18 novembre 2011 n. 24327 ), ma non si può comunque negare che la materia non rientri tra quelle delle controversie condominiali, nascendo ed esaurendosi anche tale fattispecie tra le norme del condominio negli edifici. In definitiva, si può affermare che per “controversie in materia di condominio” possano e debbano intendersi tutte quelle controversie che abbiano ad oggetto il godimento, la conservazione e la gestione delle parti comuni, le delibere assembleari indipendentemente dall’oggetto, le azioni a tutela del condominio e dei condomini nei confronti dell’amministratore e quelle che pur attendendo i diritti dei singoli partecipanti, trovino fonte ed esaurimento all’interno delle norme che regolano l’istituto (indennità per sopraelevazione), esulano invece da tale categoria le liti nascenti tra il condominio e coloro che rispetto a esso si trovino in posizione di terzietà (assoluta, quale può essere un’impresa appaltatrice, o relativa, come nel caso dell’affidamento di un intervento di manutenzione a un condomino) per effetto di rapporti giuridici che trovino fonte e disciplina al di fuori degli artt. 1117 e segg. c. c.. Non dovrebbero essere oggetto di mediazione obbligatoria le eventuali cause che vedrebbero parte “passiva” il condominio contro un fornitore di servizi (di pulizia, di manutenzione dell’ascensore o di caldaie, di disinfestazione, ecc.) o contro le ditte che hanno eseguito lavori edili al fabbricato condominiale posto che la natura di tali vertenze è di mero recupero crediti.
Non sono oggetto di mediazione obbligatoria:
- i ricorsi per decreto ingiuntivo ex art. 63 disp. att. c.c. inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione (ma anche le aste giudiziarie relative agli appartamenti dei condomini morosi);
- procedimenti urgenti e cautelari (ricorsi ex art. 700 c.p.c.);
- procedimenti possessori, fino all’adozione di provvedimenti interdittali, sono parimenti esclusi i procedimenti di volontaria giurisdizione;
- procedimenti in Camera di Consiglio, e dunque in tutti i casi di domanda di nomina/revoca dell’amministratore di condominio, ovvero di provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune ex art. 1104 ,1105 c.c.;
- i giudizi cautelari, le vertenze possessorie, i procedimenti per convalida di licenza o sfratto (di locali condominiali) fino al mutamento del rito, i procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi comunque a esecuzione forzata.
- Una problematica a parte riguarda i procedimenti in cui sarebbero parti sia un condomino che il condominio per le problematiche attinenti ai conflitti di interessi ed ai quorum assembleari (soggetti alla cd. prova di resistenza).
Per la casistica assicurativa in materia di condominio si deve distinguere:
- tra quella relativa alla richiesta di indennizzi sulla base della polizza globale fabbricati che è comunque materia di mediazione obbligatoria perché la vertenza si basa su un contratto assicurativo;
- e quella in cui il condominio è parte invitata alla mediazione ma è opportuno che richieda che sia invitata alla mediazione anche la compagnia assicurativa per essere eventualmente manlevato (proprio per la polizza globale fabbricati).
Il che è fondamentalmente giusto per il carattere di urgenza di tutte queste procedure il cui rinvio potrebbe avere conseguenze irreparabili.
L’inclusione della materia condominiale nell’ambito delle controversie soggette a conciliazione obbligatoria lascia perplessi, non fosse altro perché alcune azioni non vertono su diritti controversi, ma si configurano come procedimenti di volontaria giurisdizione finalizzati ad ottenere il superamento di una fase di stallo dell’assemblea di condominio.
Vale la pena, prima di entrare nello specifico di queste valutazioni critiche, andare per ordine, valutando caso per caso quali possano essere i riflessi in relazione ad un instaurando procedimento civile.
Diritti reali
Si tratta di una materia che, gioco forza, riguarda il condominio negli edifici. Si pensi ai casi in cui sia dubbio se una determinata cosa debba essere considerata di proprietà comune o di proprietà esclusiva, o ancora ai casi di usucapione di un bene comune o alle questioni inerenti la configurabilità di una servitù.
In tutte queste ipotesi, si tratta di questioni in cui il condominio è soltanto lo sfondo sul quale si instaura il contenzioso.
Visto il tipo di questione (es. riconoscimento della proprietà di un bene che altri assume essere proprio) non si comprende quale possa essere l’utilità’ di un tentativo di conciliazione che, e’ utile ricordarlo, non e’ un arbitrato ma semplicemente un procedimento finalizzato a cercare un accordo bonario. Il ruolo del conciliatore, infatti, non e’ quello di un giudice (egli non esprime giudizi di valore sulla bontà delle argomentazioni delle parti) ma quello di un mediatore (cerca di trovare i punti di contatto tra le parti ed eventualmente formula proposte al fine di fargli raggiungere un accordo).
E’ intuibile, allora che non in tutte le materie inerenti ai diritti reali questo tentativo possa avere utilità.
Condominio
Se si escludono dal novero le materie per le quali e’ necessario il tentativo di conciliazione quelle non contenziose, l’individuazione delle stesse è fortemente ridotta. Quale potrà essere l’utilità’ pratica della mediazione in relazione ad un ipotetico giudizio (che e’ contenzioso ordinario) di revisione delle tabelle millesimali? In questi casi, infatti, non si tratta di trovare un accordo che possa soddisfare entrambe le parti quanto, piuttosto, di dare una dimensione esatta al valore millesimale dell’unità immobiliare ubicata nell’edificio.
L’unica materia per la quale il tentativo obbligatorio di conciliazione può svolgere una funzione positiva, e’ quella delle deliberazioni assembleari. A volte, infatti, i contenziosi sono relativi alle modalità d’uso dei servizi condominiali. Si tratta di questioni che, al di là dei principi giuridici che informano la materia, possono trovare soluzione in un accordo tra le parti.
Non è chiaro, però, come l’esperimento del tentativo di conciliazione possa coordinarsi con le regole dettate in materia d’obbligatorietà ed esecuzione delle delibere condominiali. In effetti l’amministratore e’ tenuto ad eseguire la deliberazione assembleare che è obbligatoria per tutti i condomini. E’ pur vero che la deliberazione impugnata può essere annullata dall’Autorità Giudiziaria ma con la conciliazione non si giungerà mai ad una dichiarazione d’invalidità della delibera, piuttosto ad una sua sostituzione con un accordo conciliativo.
Si dovrà davvero considerare lecito che l’amministratore possa conciliare (magari in materia di sua competenza) con uno dei condomini trovando un accordo che di fatto, renda inapplicabile una decisione assembleare, che, invece, salvo annullamento dell’Autorità Giudiziaria dovrebbe essere obbligatoria per tutti i comproprietari?
Si pensi alle frequentissime liti condominiali in materia di ripartizione delle spese. Si può considerare legittimo che l’amministratore, a seguito di procedimento di mediazione, possa rideterminare la suddivisione degli oneri contributivi sulla base dell’accordo conciliativo raggiunto con il condomino promuovente l’azione? In una controversia relativa alle clausole del regolamento di condomino può ritenersi possibile un accordo che, in relazione al suo contenuto, si configuri, di fatto, come una modificazione del regolamento condominiale? Va chiarito che in materia di impugnazione di delibere resta, chiaramente, sospeso il termine per l’impugnazione stessa per il periodo necessario ad esperire il tentativo di conciliazione (quattro mesi).
Si tratta del solito rompicapo giuridico (riguardante il condominio) che, più che snellire, rischia di aumentare e non di poco il carico giudiziario.
2. Aspetti procedurali.
Quanto al termine di decadenza dei trenta giorni per l’impugnazione delle delibere, lo stesso deve ritenersi sospeso per il periodo utile ad esperire il tentativo di conciliazione che non può durare per più di quattro mesi (artt. 5, sesto comma, e 6 d.lgs. n. 28/10).
L’obbligatorietà di procedere alla mediazione non preclude l’esperibilità immediata delle azioni cautelari per ottenere la sospensione del deliberato.
Il procedimento di mediazione non trova applicazione in relazione alle azioni di recupero del credito esercitate mediante ricorso per ingiunzione di pagamento “fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione” (art. 5, quarto comma, d.lgs. n. 28/10).
La materia condominiale è particolare, perché a differenza del resto del diritto civile, che è regolato dalle norme del codice e dalla legislazione, quello condominiale sembra basato sui precedenti giurisprudenziali più che su codici e leggi. Nell’attesa che il legislatore adegui le norme ai tempi, la magistratura ha dovuto supplire con interventi che, più che interpretare, hanno tentato di “riscrivere” le regole.
In relazione quindi al procedimento di mediazione, il problema preliminare è quello di stabilire se l’amministratore sia legittimato, senza il preventivo consenso dell’assemblea, a decidere se partecipare o meno al procedimento di mediazione e, in caso ritenga di dovervi partecipare, se debba essere assistito.
3. La legittimazione processuale dell’amministratore.
Il tema non può essere trattato prescindendo da una preliminare digressione in tema di legittimazione processuale dell’amministratore condominiale, in quanto le medesime problematiche che ancora oggi la contornano possono essere trasposte nella procedura di mediazione.
Nonostante l’intervento delle SS.UU. della Corte di Cassazione nel 2010 (sent. 6 agosto 2010 n. 18331) la questione resta poco chiara.
Secondo gli ermellini, essendo la nomina di un amministratore imposta solo quando il numero dei condomini sia superiore a quattro (art. 1129 c.c.), la regola generale in materia di condominio negli edifici è che l’organo principale, depositario del potere decisionale, sia l’assemblea dei condomini, analogamente a quanto accade per la comunione in generale. All’amministratore compete solo il ruolo di mero esecutore materiale delle deliberazioni dell’assemblea condominiale; nessun potere decisionale può essere dunque riconosciuto all’amministratore del condominio in quanto tale; anche l’art. 1131 c.c., nell’attribuire allo stesso il potere di rappresentanza dei condomini e di azione in giudizio, contestualmente lo circoscrive alle attribuzioni derivanti dell’art. 1130 c.c., dal regolamento o dall’assemblea.
Ciò comporta, secondo la Corte, l’esigenza di distinguere tra controversie ricadenti entro i limiti delle attribuzioni dell’amministratore individuate dall’art. 1130 c.c.(1) o dal regolamento, nelle quali esiste una rappresentanza di diritto del condominio, legittimandolo ad agire e a resistere in giudizio (nonché a proporre le impugnazioni) senza necessità di autorizzazione dell’assemblea, e controversie che si pongono al di fuori di tali limiti, per le quali è necessario che l’amministratore ottenga l’autorizzazione dell’assemblea a proporre l’azione (o l’impugnazione) o a resistere in giudizio ai sensi degli artt. 1131, comma 2 e 1136, comma 4, c. c.. Sebbene l’art. 1131, comma 4 c.c. affermi che l’amministratore che agisca in mancanza dell’autorizzazione dell’assemblea, possa essere revocato e rispondere dei danni, nessuna norma disciplina le conseguenze, sul piano processuale, di tale omissione.
Prima dell’intervento delle SS.UU. si erano formati in seno alla giurisprudenza due contrastanti orientamenti: il primo, maggioritario, propendeva per ritenere che l’amministratore potesse costituirsi in tutti i giudizi promossi nei confronti del condominio, e anche proporre le impugnazioni, ancorché privo dell’autorizzazione dell’assemblea dei condomini, basandosi su una interpretazione estensiva dell’art.1131 c.c. e affermando che l’amministratore fosse titolare di una rappresentanza processuale passiva generale illimitata (il solo obbligo gravante in capo all’amministratore era quello di darne senza indugio notizia all’assemblea; obbligo peraltro avente mera rilevanza interna e non incidente sui suoi poteri rappresentativi processuali); il secondo, minoritario, sosteneva invece che in assenza di tale autorizzazione assembleare, l’amministratore fosse privo di legittimazione a costituirsi, e a impugnare, in quanto la ratio dell’art. 1131, comma 2, c.c. era solo quella di favorire il terzo che avesse voluto iniziare un giudizio nei confronti del condominio, consentendogli di poter notificare la citazione al solo amministratore anziché a tutti i condomini.
Tuttavia, l’attribuzione in favore dell’assemblea della decisione di resistere in giudizio o impugnare la sentenza sfavorevole, per cui occorre che l’amministratore sia autorizzato a tanto, si collega con la legittimazione passiva generale attribuita all’amministratore ai sensi dell’art. 1131, comma 2, c. c .. Infatti le SS.UU. hanno espresso il principio che l’amministratore convenuto possa, anche autonomamente e senza la necessaria autorizzazione assembleare(2), costituirsi in giudizio ovvero impugnare la sentenza sfavorevole, a condizione però che il suo operato sia ratificato, con effetti sananti ex tunc degli atti compiuti, dall’assemblea, titolare del relativo potere(3).
In questo modo si salvaguarderebbe anche il diritto di dissenso dei singoli condomini rispetto alla lite, sancito all’art. 1132 c.c., altrimenti vanificato.
Nonostante la conferma di tale principio nelle successive pronunce della Corte, l’opposta teoria tradizionale ha trovato di recente nuova linfa presso la medesima, la quale ha affermato che “in tema di controversie condominiali, la legittimazione dell’amministratore del condominio, dal lato attivo coincide con i limiti delle sue attribuzioni, mentre dal lato passivo, non incontra limiti e sussiste in ordine ad ogni azione concernente le parti comuni dell’edificio.” (sent. 23 agosto 2011 n. 17577).
Sebbene la questione paia essere ben lontana da una soluzione, alla luce dei principi fin qui enunciati si può comunque tentare di calare il tema della legittimazione processuale dell’amministratore all’interno della procedura di mediazione, anche solo per verificare se questa possa o no discostarsi, nei termini affrontati, rispetto al contesto giudiziale.
Secondo l’opinione oggi prevalente (ma non univoca), l’amministratore di condominio ha legittimazione a proporre l’azione o l’impugnazione e a resistere in giudizio, senza necessità di autorizzazione da parte dell’assemblea, per tutte le controversie il cui oggetto rientri nell’ambito delle sue attribuzioni, così come gli derivano dalla legge (art. 1130 c.c.) o dal regolamento; negli altri casi, cioè per controversie esorbitanti tali attribuzioni, l’amministratore ha invece l’obbligo di ottenere l’autorizzazione dell’assemblea (art. 1136, comma 4, c.c.), sotto pena di revoca del mandato e risarcimento del danno (art. 1131, comma 4, c.c.), la quale potrà anche intervenire in un momento successivo a ratificarne l’operato ma la cui convocazione è imprescindibile anche al fine di consentire ai singoli condomini di esprimere il proprio dissenso rispetto alla lite ai sensi dell’art. 1132 c. c. .
Il potere dell’amministratore di conferire mandato ad un legale per rappresentare il condominio in giudizio è un altro argomento sul quale si dibatte da tempo e sul quale, stante un alternarsi di orientamenti, non si è raggiunta una definizione precisa.
(1) Le attribuzioni ex lege dell’amministratore sono di eseguire le deliberazioni dell’assemblea e curare l’osservanza dei regolamenti di condominio; disciplinare l’uso delle cose comuni; riscuotere il pagamento dei contributi condominiali approvati dall’assemblea; compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio
(2) Va segnalato che, in sede processuale, altri ritenevano comunque, preliminarmente, che, il terzo non potesse eccepire il superamento dei poteri dell’amministratore, essendo i limiti degli artt. 1130 e 1131 c.c. posti a salvaguardia esclusiva dei diritti dei condomini (Cass. Sez. II 20 febbraio 1997, n. 1559); ed infatti questi ultimi, possono sempre ratificare l’operato dell’amministratore (App. Milano, 20 novembre 1998).
(3)Sul punto si era più volte espressa la giurisprudenza statuendo ad esempio che “Il conferimento da parte dell’assemblea condominiale all’amministratore del condominio del potere di stare in giudizio in una controversia non rientrante tra quelle che può autonomamente proporre ai sensi del primo comma dell’art. 1131 cod. civ. può sopravvenire utilmente, con effetto sanante, dopo la proposizione dell’azione.”:Cassazione del 13.12.2006 sentenza n. 26689.
Per un lungo periodo dottrina e giurisprudenza ritenevano, sulla base di una interpretazione estensiva dell’art. 1131 del codice civile, che l’amministratore fosse legittimato, anche senza il preventivo consenso dell’assemblea condominiale, a poter “resistere” in giudizio ed a proporre azioni a difesa delle parti comuni (ossia nei limiti dell’art. 1130 n. 4), salvo poi la ratifica successiva dell’assemblea condominiale; mentre per le liti “attive” era comunque necessario il preventivo consenso dell’assemblea dei condomini.
Poi è prevalso un orientamento diverso sulla base di alcune lungimiranti pronunzie sia di merito che di legittimità. In particolare si evidenzia quanto stabilito sul punto dalla Cassazione nel 2004 (con sentenza n. 22294 pronunciata il 26 novembre 2004) che ha ritenuto che il convincimento in ordine alla sussistenza di una generale legittimazione passiva dell’amministratore trovi il suo fondamento in una erronea interpretazione degli artt. 1131 commi I e II c.c., alla stregua del quale se l’amministratore può risultare destinatario della notificazione di qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio da ciò discenderebbe l’illimitatezza dei suoi poteri rappresentativi processuali dal lato passivo e, pertanto, ha statuito che: “Il collegio ritiene di non condividere tale orientamento, in quanto basato su una interpretazione dell’art. 1131, secondo comma, cod. civ. che non tiene conto della ratio ispiratrice di tale norma, la quale è diretta a favorire il terzo il quale voglia iniziare un giudizio nei confronti del condominio, consentendogli, invece di citare tutti i condomini, di notificare la citazione all’amministratore. Nulla, invece, nella norma in questione giustifica la conclusione secondo la quale l’amministratore sarebbe anche autorizzato a resistere in giudizio senza essere a tanto autorizzato dall’assemblea. Una volta chiarito tale punto, va rilevato che, in considerazione del fatto che la c. d. autorizzazione della assemblea a resistere in giudizio in sostanza non è che un mandato all’amministratore a conferire la procura ad litem al difensore che la stessa assemblea ha il potere di nominare, per cui, in definitiva, l’amministratore non svolge che una funzione di mero nuncius .”.
Sul punto è intervenuta anche la dottrina (Dott. Gian Andrea Chiesi, magistrato) che ha notato: “l’autorizzazione dell’assemblea a resistere si pone quale condicio sine qua non affinché l’amministratore, nella propria veste di mandatario, possa conferire il mandato difensivo ad un legale e sottoscrivere la relativa procura alle liti. In mancanza, non potrà che concludersi – e salva la facoltà del Giudice di disporre l’integrazione delle necessarie autorizzazioni, ex art. 182 cod. proc. civ. – per l’inammissibilità della costituzione in giudizio del condominio e la declaratoria di contumacia dello stesso (con le conseguenti responsabilità in capo all’amministratore).” ed ancora “i condomini si vedono involontariamente coinvolti in un giudizio, senza neppure essere a conoscenza degli atti di causa – casomai addirittura condividendo le motivazioni sottese alla lite .- e salvo essere posti, solo in un secondo momento e a “giochi fatti”, di fronte all’alternativa tra la ratifica, da un lato, di una nomina già effettuata “motu proprio” dall’amministratore e la scelta, dall’altro, di un legale di fiducia del condominio (non di un suo, pur qualificato, rappresentante) ovvero di dissentire rispetto alla lite, con duplicazione, nel primo caso, di esborsi, ovvero, nella seconda ipotesi ed in caso di vittoria, con possibile sostenimento di spese non volute (a tale ultimo proposito, l’art. 1132, comma 3, cod. civ.) .”. Conforme anche la migliore magistratura di merito (“in assenza della delibera dell’assemblea dei condomini che autorizzi l’amministratore a resistere in giudizio, l’amministratore è carente di legittimazione processuale, donde discende l’irritualità della costituzione del rapporto processuale e, per l’effetto, l’inammissibilità della costituzione in giudizio del condominio”: Tribunale di Torre Annunziata, sezione distaccata di Torre del Greco, sentenza 19 ottobre 2006).
E’ concorde sul punto anche la giurisprudenza amministrativa che ha ritenuto che fosse “inammissibile l’atto di intervento in giudizio di un condominio ove la deliberazione assembleare con cui è stato ratificato l’intervento risalga a epoca successiva alla notifica dell’atto di intervento stesso” (T.A.R. Lombardia Milano, 4. luglio 2002, n. 3115), ovvero che “l’amministratore di condominio non è legittimato a impugnare -in difetto di delibera dell’assemblea dei condomini- il provvedimento sindacale contingibile e urgente adottato nei confronti del condominio” (Cons. Stato, 21 luglio 1988, n. 478).
Questa corretta interpretazione è stata poi confermata anche dalla Cassazione nel 2006 (sentenza della II sezione civile del 25 gennaio 2006, n. 1446) che ha espressamente statuito commentando la ratio dell’art. 1131, secondo comma che:“Nulla, contemporaneamente, nella stessa norma, giustifica la conclusione secondo cui l’amministratore sarebbe anche legittimato a resistere in giudizio senza essere a tanto autorizzato dall’assemblea. Considerato, inoltre, che la cosiddetta autorizzazione dell’assemblea a resistere in giudizio in sostanza non è che un mandato d’amministratore a conferire la “procura ad litem” al difensore che la stessa assemblea ha il potere di nominare, in definitiva, l’amministratore non svolge che una funzione di mero “nuncius” e che pertanto è inammissibile l’azione proposta dall’amministratore “senza espressa autorizzazione della assemblea.”.
Sul punto è poi intervenuta nuovamente la Suprema Corte con una pronunzia, a Sezioni Unite, (n. 18331 del 6 agosto 2010) che ha specificamente statuito che: “Sulla questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite esistono nella giurisprudenza di legittimità due diversi orientamenti: il primo (maggioritario) afferma che l’amministratore può costituirsi nel giudizio promosso nei confronti del condominio e può impugnare la sentenza sfavorevole al condominio pur se a tanto non autorizzato dall’assemblea condominiale; il secondo (minoritario) sostiene, invece, che in assenza di tale deliberazione assembleare l’amministratore e’ privo di legittimazione a costituirsi e ad impugnare. …… Alla luce delle considerazioni svolte va enunciato il seguente principio di diritto: “L’amministratore di condominio, in base al disposto dell’art. 1131 c.c., comma 2 e 3, può anche costituirsi in giudizio e impugnare la sentenza sfavorevole senza previa autorizzazione a tanto dall’assemblea, ma dovrà, in tal caso, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea per evitare pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione“.
Sul punto si era più volte espressa la giurisprudenza statuendo ad esempio che “Il conferimento da parte dell’assemblea condominiale all’amministratore del condominio del potere di stare in giudizio in una controversia non rientrante tra quelle che può autonomamente proporre ai sensi del primo comma dell’art. 1131 cod. civ. può sopravvenire utilmente, con effetto sanante, dopo la proposizione dell’azione”. (Cassazione del 13.12.2006 sentenza n. 26689 in rigetto, all’App. Torino del 31.12.2002).
Va segnalato che, in sede processuale, altri ritenevano comunque, preliminarmente, che, il terzo non potesse eccepire il superamento dei poteri dell’amministratore, essendo i limiti degli artt. 1130 e 1131 c.c. posti a salvaguardia esclusiva dei diritti dei condomini (Cass. Sez. II 20 febbraio 1997, n. 1559); ed infatti questi ultimi, possono sempre ratificare l’operato dell’amministratore (App. Milano, 20 novembre 1998).
E ciò sulla base della considerazione che la procura ad litem, rilasciata dalla parte processuale al suo difensore ai sensi dell’art. 83 c.p.c., lungi dal costituire un atto processuale è un negozio giuridico rientrante nell’istituto della rappresentanza e che pertanto a tale figura si applica una disciplina speciale data dall’insieme delle disposizioni contenute nel codice di procedura civile (artt. 83 c.p.c.) e da quelle contenute nel Libro IV, Capo VI del Codice Civile riguardanti la rappresentanza; e poiché l’art. 83 c.p.c. non si pronunzia in alcun modo sugli effetti della procura successiva si devono, quindi, analizzare le disposizioni generali del diritto civile e processuale vigente; in proposito dal combinato disposto degli articoli 1398 e 1399 c.c. emerge la possibilità del rappresentato di ratificare l’opera di chi ha agito in nome e per conto di altri senza averne i poteri; e nel caso in questione tale fattispecie è comunque di gran lunga di gravità minore posto che il mandato è comunque sottoscritto dall’amministratore di condominio, ossia dal legale rappresentante dell’ente condominiale e non ad esempio da un falsus procurator ; sul punto si è espressa la Suprema Corte proprio in merito agli effetti della procura ad litem sul rappresentato stabilendo che: “Ai fini del valido conferimento della procura rilasciata a margine dell’atto di citazione non è necessario che esso sia contestuale o successivo alla redazione della citazione, non essendo richiesta a pena di nullità la dimostrazione della volontà della parte di fare proprio il contenuto dell’atto nel momento stesso della sua formazione o ex post” (Cass. 8904/94); e, quanto agli effetti sananti della ratifica, basta considerare quanto statuito dall’art. 1399 c.c. e dalla riforma dell’art.182 c.p.c. (come riscritto dall’art.46 comma II della legge n. 69 del 18 giugno 2009) che ha rafforzato il potere del giudice che può invitare le parti a sanare la posizione processuale mediante il deposito di atti e documenti.
Parrebbe quindi che la produzione documentale sanante non incontri limiti preclusivi proprio a norma del disposto dell’art. 182 c.p.c. novellato, in forza del quale l’autorizzazione del Condominio sarebbe potuta addirittura sopravvenire dopo l’instaurazione del giudizio con efficacia sanante ex nunc (G. Buffone, in “Sanabilità dei vizi afferenti alla validità della procura”, scritto presentato al seminario di formazione professionale tenuto dall’Ordine degli avvocati di Catanzaro del 14 luglio 2009, dal titolo “Prime riflessioni sulla novella al codice di procedura civile”).
Ciò posto la giurisprudenza si è sempre orientata per il difetto di legittimazione in caso di mancanza di mandato per le cause “attive” (Tribunale di Napoli – IV sezione civile, sentenza n. 7510/2010 del 1.7.2010 nella quale nel rigettare le vane istanze del condominio il giudice ha espressamente statuito che poiché il mandato condominiale “… non risulta essere stato conferito per procedere alla proposizione della domanda giudiziale nei confronti … ” … “dichiara inammissibile la domanda proposta dal condominio sito in … in persona dell’amministratore pro tempore …”); parimenti ha sanzionato il difetto di “jus postulandi”, acclarandone anche la nullità dell’azione proposta il Tribunale di Napoli, III sezione civile del 18.3.2011, che ha statuito “il ricorso introduttivo del presente giudizio deve ritenersi nullo” poiché “secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, inoltre, il difetto di legittimazione processuale dell’amministratore di un condominio, attenendo alla legittimità del contraddittorio, nonché alla validità della sua costituzione, determina la nullità degli atti processuali compiuti ed è rilevabile anche d’ufficio (Corte di Cassazione sentenza n. 1926/1997). Pertanto nel caso in esame la procura doveva essere rilasciata da una persona della quale fosse non solo dichiarata, ma anche dimostrata la qualità di titolare del potere rappresentativo sulla base di una specifica delibera o del regolamento condominiale, che non risultano, invece, prodotti in giudizio. Sul punto la Corte di Cassazione ha precisato che “in tema di condominio di edifici colui che agisce in giudizio in nome del condominio deve dare la prova, in caso di contestazione, della veste di amministratore e quando la causa esorbita dai limiti di attribuzione dell’art. 1130 cod. civ., di essere autorizzato a promuovere l’azione contro i singoli condomini o terzi. Tale onere probatorio è da ritenersi assolto con la produzione della delibera dell’assemblea condominiale dalla quale risulti che egli è l’amministratore e che gli è stato conferito mandato a promuovere l’azione giudiziaria”. (Corte di Cassazione sentenze n. 8520//2003, n. 13164/2001, 6697/1991).” e quindi “in conclusione il ricorso deve ritenersi nullo” e “P.Q.M. il Tribunale … dichiara la nullità del ricorso introduttivo del presente giudizio.”.
Fatta tale necessaria premessa processuale si può passare ad analizzare quali siano le facoltà dell’amministratore di poter decidere se intervenire ad una procedura di mediazione.
La nuova normativa pone all’amministratore un ristretto ventaglio di possibili scelte, nessuna delle quali sicura e/o corretta. Mentre, infatti, pare consolidato l’orientamento che ritiene che rientri nell’ambito delle facoltà dell’amministratore quella di sottoscrivere l’informativa relativa alla possibilità di avvalersi della mediazione, non altrettanto chiara e concorde è la dottrina sulla possibilità dell’amministratore di essere parte del procedimento di mediazione senza il preventivo assenso dell’assemblea condominiale.
Per quel che concerne la procedura di mediazione obbligatoria, pertanto, qualsiasi scelta operata dall’amministratore, sebbene in buona fede e nell’esclusivo interesse del condominio, potrebbe, in astratto, essere oggetto di critica dal condominio (o da alcuni condomini).
L’amministratore, in caso di ricevimento di atto di un invito al procedimento in mediazione, potrebbe inviare una comunicazione all’ente di conciliazione per richiedere di posticipare il primo incontro in modo da avere il tempo di convocare l’assemblea, ma, indipendentemente dall’esito di tale richiesta, il problema potrebbe anche non essere risolto posto che l’assemblea potrebbe anche non deliberare (es. andare “deserta”).
Per evitare l’inconveniente, si ritiene opportuno che, con l’entrata in vigore della normativa in esame (e comunque prima che giungano gli “inviti” per le future procedure di mediazione), venga convocata dall’Amministratore un’assemblea di Condominio con uno specifico punto all’o.d.g. che permetta ai condomini di scegliere, preventivamente, come indirizzare l’operato dell’amministratore ed in tal modo esoneri quest’ultimo dal dover decidere, assumendosi la responsabilità della scelta.
Uno schema base del punto da inserire nell’o.d.g. potrebbe essere il seguente:
“Mediazione ex d.lgs. n. 28/2010: entrata in vigore del tentativo obbligatorio di mediazione in materia condominiale dal marzo 2012. Eventuali delibere in merito alla preventiva autorizzazione all’amministratore pro tempore del condominio a partecipare al procedimento di mediazione. Eventuale delibera di autorizzazione preventiva all’amministratore a conferire mandato ad un avvocato per l’assistenza e la consulenza in sede di mediazione ed anche eventualmente in sede giudiziaria in caso di mancata conciliazione. Eventuale delibera di autorizzazione preventiva all’amministratore per conferire l’incarico ad un perito/tecnico per l’assistenza e la consulenza in sede di mediazione ove la materia lo richieda.”.
La delibera dovrebbe poi dare istruzioni anche in riferimento alle varie possibili ipotesi di argomenti oggetto della mediazione (nell’esempio del danno da infiltrazioni deve essere chiarito se l’amministratore deve aderire alla mediazione e se deve essere assistito da un legale e da un perito).
E’ utile tale discussione preventiva in seno all’assemblea anche se poi, chiaramente, ove, in sede di mediazione, si prospetti una concreta ipotesi di conciliazione, l’amministratore dovrà comunque convocarne un’altra ponendo all’o.d.g. i termini precisi della eventuale proposta; in questo caso, se l’assemblea deliberasse di accettare la proposta, tale proposta dovrà essere integralmente recepita, ossia negli stessi termini della delibera condominiale, nel verbale di conciliazione.
Problema ulteriore si porrebbe nel caso in cui la proposta fosse dall’assemblea deliberata, ma con quorum insufficienti.
In caso di mancata impugnazione, l’amministratore dovrebbe comunque procedere a sottoscrivere il verbale di conciliazione.
Più problematica sarebbe la posizione dell’amministratore in caso di impugnativa posto che, fino all’eventuale sospensione e/o annullamento, egli sarebbe comunque tenuto ad eseguire il deliberato, ma le conseguenza giuridiche, posti i tempi della giustizia, dell’eventuale annullamento del deliberato sarebbero difficilmente riproducibili in un verbale di conciliazione; il tutto con la prevedibile conseguenza che l’altra parte del procedimento sarebbe conseguentemente poco motivata a concludere positivamente la mediazione.
Si è detto che qualora la lite rientri tra le attribuzioni dell’amministratore, questi non necessita dell’autorizzazione dell’assemblea, che sia per promuovere l’istanza di mediazione o aderirvi; a questo punto sorge un’altra difficoltà legata al fatto che le parti possono stare in mediazione anche senza assistenza tecnica, relegata quest’ultima a una mera facoltà.
La possibilità di un’assistenza tecnica potrebbe risultare determinate per il contenuto dell’accordo (se raggiunto) e prima ancora sulla conclusione di esso stesso.
L’amministratore sarà dunque responsabile nei confronti del condominio per eventuali danni derivanti a quest’ultimo per effetto delle scelte del primo, come potrebbe accadere nel caso di un accordo di mediazione non soddisfacente la posizione del condominio rappresentato.
Certamente si avvicinerebbe a una probatio diabolica la dimostrazione che l’eventuale assistenza tecnica in mediazione avrebbe condotto a un accordo diverso, in senso migliorativo, per il condominio (o non avrebbe portato ad alcun accordo), ma ciò comunque non deporrebbe a sfavore della buona (o quantomeno consigliabile) prassi secondo cui l’amministratore rimetta ai condomini la decisione se avvalersi o no di essa. Sembra invece pacifico che l’amministratore, come per la transazione, non possa sottoscrivere alcun verbale conciliativo se non autorizzato da specifica delibera condominiale che recepisca preventivamente ed integralmente il contenuto della mediazione.
Il problema, a questo punto, si sposta sulle eventuali maggioranze necessarie affinché si possa effettivamente partecipare alla mediazione e/o far sottoscrivere un verbale di conciliazione all’amministratore.
Per le mediazioni concernenti la rinunzia ai diritti reali su parti comuni (a favore di un condomino o di un terzo) e/o comunque atti di alienazione di parti comuni o di costituzione su di esse di diritti reali o per le locazioni ultranovennali è richiesto il consenso della totalità dei condomini. E ciò perché in tali atti rileva il diritto dei condomini uti singuli .
In caso di vertenze relative a pendenze economiche (es. riparto di spese condominiali oppure la definizione
di pendenze col precedente amministratore) dovrebbero essere sufficienti le maggioranze ex art. 1136, comma 4 (ossia comma 2 per esplicito rinvio) c. c..
Chiaramente in cause che coinvolgono i singoli condomini contro il condominio dovrebbero essere verificati i quorum per i possibili conflitti di interessi e quindi con particolare riferimento degli stessi quorum alla cd. prova di resistenza.
Una ipotesi particolare e di difficile soluzione è quella relativa alle possibili vertenze tra l’amministratore ancora in carica ed il condominio posto che l’amministratore è l’unico rappresentante legale, sebbene pro tempore, del condominio. In questo caso l’assemblea dovrebbe assolutamente delegare un terzo soggetto a rappresentare il condominio in fase di mediazione per ovviare al conflitto di interessi.
Quindi, come sempre, le future pronunzie della giurisprudenza colmeranno i vuoti legislativi …..che, più che interpretare, tenteranno di “riscrivere” le regole.
4. L‘amministratore e il verbale di conciliazione.
In mancanza ancora di un orientamento univoco o comunque maggiormente accreditato, si condivide la tesi secondo cui il verbale di conciliazione sia un atto in tutto affine a un negozio transattivo (art. 1965 c.c.: “La transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro. Con le reciproche concessioni si possono creare, modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti.”) qualificato, nel senso che ad esso, diversamente dalla comune transazione, l’ordinamento attribuisce efficacia esecutiva (sebbene condizionata all’omologazione giudiziale). Peraltro, è pure possibile che l’accordo delle parti rivesta i caratteri propri di un contratto tipico, nel qual caso esso sarà regolato dalle norme del negozio realizzato, fermi sempre restando gli effetti dell’omologazione e la necessità dell’approvazione assembleare.
Per poter impegnare il condominio, l’amministratore, oltre ad essere autorizzato a stare in mediazione nei casi visti, deve anche ottenere l’approvazione del contenuto dell’accordo da parte dell’assemblea; solo dopo, infatti, egli potrà sottoscrivere il verbale di conciliazione con effetti vincolanti per il condominio. La deliberazione seguirà gli ordinari criteri di maggioranza, tranne qualora l’accordo abbia ad oggetto un atto dispositivo delle parti comuni, dovendo nel qual caso essere approvato dall’assemblea all’unanimità, sotto pena di nullità della delibera e dell’accordo concluso in forza di essa (principio affermato dalle SS.UU. della Corte di Cassazione sent. 7 marzo 2005 n. 4806).
Il problema sorge nei casi in cui la delibera d’assemblea sia viziata: se nulla, qual è la delibera che abbia un oggetto impossibile o illecito, non sia di competenza dell’assemblea, incida sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, o sia comunque invalida in relazione all’oggetto (SS.UU. Cass. civ. 4806/05), lo stesso si dirà del verbale di conciliazione; se annullabile, qual è quella viziata nel quorum costitutivo o deliberativo, o anche a monte per effetto della mancata convocazione di uno o più condomini, la questione cambia. L’annullamento dev’essere richiesto entro il termine di decadenza di cui all’art. 1137 c.c., con la conseguenza che qualora non tempestivamente impugnata, la delibera dell’assemblea acquisterà efficacia definitiva, non inficiando così in alcuna parte il verbale di conciliazione medio tempore eventualmente sottoscritto dall’amministratore in forza dell’autorizzazione derivante dalla decisione assembleare viziata ma sanata per effetto della mancata opposizione. Qualora invece l’impugnazione sia stata proposta, tralasciando il fatto, comunque singolare, che la domanda di annullamento della delibera sarà parimenti soggetta al tentativo obbligatorio di conciliazione, all’amministratore spetterà di decidere se dare in ogni caso attuazione alla volontà condominiale, firmando il verbale di conciliazione ed esponendosi ai rischi di un annullamento della deliberazione che l’abbia a ciò autorizzato, oppure non provvedervi attenendo l’esito (del tentativo di conciliazione e in caso infruttuoso) del giudizio di opposizione, esponendo il condominio, qualora quest’ultima sia respinta, ai rischi derivanti da un accordo non concluso o comunque non tempestivamente concluso. Qualunque scelta potrebbe essere foriera di responsabilità per l’amministratore, il quale sarebbe onerato di accertare in quale misura le censure mosse avverso la delibera risultino fondate e quindi decidere di conseguenza, sottoscrivendo l’accordo solo qualora le censure stesse non sembrino eccessive e astenendosi nel caso contrario. Probabilmente la scelta più opportuna e cautelativa che l’amministratore potrebbe fare, sarebbe rimettere la decisione ancora all’assemblea condominiale.
5. Riepilogo criticità.
Forti dubbi sussistono sulle modalità di applicazione della mediazione nel condominio , sulla legittimazione attiva e passiva dell’amministratore a partecipare alla procedura di mediazione, sui tempi stringenti che la regolano in considerazione della necessità da parte dell’amministratore di avere una specifica approvazione dall’assemblea, sulle maggioranze che devono approvarla e/o ratificarla. E’ chiaro come l’obbligatorietà della applicazione della procedura pone l’amministratore nella condizione di partecipare alla procedura di conciliazione sia attiva che passiva, il tutto nell’ambito dei poteri ex art. 1130 c.c. o dei maggiori poteri concessi dal regolamento di condominio, è ovvio che per materie che esulano da questi poteri sarà necessaria apposita autorizzazione assembleare. Con quale maggioranza? Come considerare gli eventuali dissenzienti ? In merito poi ai tempi sorgono ulteriori difficoltà infatti, per legge, è previsto che il primo incontro tra le parti sia fissato dal responsabile dell’organismo di conciliazione non oltre 15 giorni dal deposito della domanda di mediazione: quasi certamente l’amministratore in questi ristretti tempi non riesce a convocare l’assemblea (molti regolamenti di condominio stabiliscono termini superiori a quelli del codice civile per la valida convocazione dei condomini) ovvero non si raggiunga il quorum deliberativo, di conseguenza la partecipazione a questo incontro potrà avere solo un carattere conoscitivo e non decisionale e dovrà comunque essere ratificata a posteriori dall’assemblea.
Queste riflessioni su alcuni aspetti di non semplice applicazione della procedura di mediazione di controversie in materia di condominio ci inducono ad augurarci che da parte del legislatore intervengano chiarimenti e semplificazioni magari all’interno della legge di riforma del codice del condominio attualmente in discussione davanti alla Commissione Giustizia della Camera.
6. La mediazione.
Meglio un cattivo accordo che una buona sentenza, ritenevano i nostri avi. Tutti consigliano di perseguire sempre la conciliazione piuttosto che perseguire una faticosa e dannosa lotta giudiziaria per aver ragione dell’avversario.
Il consiglio vale ancora di più oggi in un contesto di paralisi del sistema giudiziario, dove per avere giustizia si deve attendere per un numero imprevedibile di anni una sentenza che arriva quasi sempre fuori tempo massimo per tutelare i nostri diritti.
Tuttavia percorrere la strada della conciliazione solo per i ritardi della giustizia sarebbe riduttivo. In realtà vi sono motivazioni più profonde che ci devono indurre a rivolgerci ad un Organismo di mediazione e conciliare la lite. Sono ragioni politiche, sociali ed economiche ed attengono alla sfera dei rapporti con l’altro.
Questi rapporti oggi più di ieri sono sollecitati e messi in discussione, diventano fonte di conflitto in una società ad elevato livello di complessità, in un contesto globalizzato caratterizzato da diversità culturali ed economiche con contraddizioni crescenti a cui si aggiunge la difficoltà a comunicare in modo efficace e costruttivo. La famiglia, il condominio, il luogo di lavoro, la strada, le relazioni con gli altri sono occasione di incomprensione e conflitto.
Quando, dopo tanta lotta nelle aule dei Tribunali, riusciamo ad ottenere un provvedimento lo stesso in molti casi non riesce a soddisfare le nostre aspettative e i nostri interessi, perché si rivela poco utile:
- alla conservazione dei rapporti tra le parti e ciò, in alcune situazioni, è estremamente dannoso (rapporti cliente/fornitore, rapporti familiari, rapporti condominiali);
- perché il giudicato viene calato dall’alto e spesso non è pienamente condiviso nemmeno dalla parte vittoriosa (il giudicato accoglie solo parzialmente le nostre richieste; il dispositivo si fonda solo su motivazioni formali);
- perché interviene dopo tanto tempo, quando le situazioni soggettive ed oggettive sono mutate;
- perché si vince una battaglia ma si perde la guerra o si vince a caro prezzo.
Durante la mediazione, invece, alla presenza di un terzo neutrale che favorisce la circolazione del flusso comunicativo, le parti hanno la possibilità di superare l’occasionale motivo del contendere, di capire le ragioni dell’altro e di giungere, attraverso il reciproco riconoscimento, alla formazione di accordi vantaggiosi per tutte le parti.
Con la mediazione il conflitto non viene compresso o rifiutato (la conciliazione non si fonda sul buonismo), ma riconosciuto e assecondato, per poterne contenere gli aspetti distruttivi e valorizzare quelli positivi. Il mediatore aiuta a ristabilire la comunicazione tra le parti per elaborare insieme emozioni e sentimenti che, radicalizzandosi, hanno dato luogo a contrapposizioni e rigidità. La funzione positiva dell’istituto della mediazione esplica i suoi effetti positivi per le disputeche nascono all’interno di un condominio, dove i sentimenti di stima e di buon vicinato si trasformano in risentimento e odio
Il rivolgersi ad un Organismo di mediazione, specialmente se avviene di comune accordo, può essere l’occasione per un confronto franco e costruttivo che elimina la causa dello scontro.
Il contenzioso giudiziario e una difesa che mira solo alla sconfitta dell’altro mal si conciliano con la necessità di non guastare l’habitat dove le parti vivono, di non esasperare un rapporto già in crisi. In questi casi la vittoria giudiziaria può essere un’amara consolazione e rendere difficile i rapporti quotidiani tra persone che sono condannate a cooperare nel ristretto spazio condominiale e rendono difficile la conduzione di tutto il condominio.
In questi casi non solo conviene ma è necessario rivolgersi alla Mediazione per riattivare un sano circolare processo di comunicazione.
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