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Mutamenti strutturali in Italia a seguito Guerra 1915-18

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16. La nuova classe dirigente.

Avviandoci alla conclusione di questo nostro saggio vanno sottolineati tre decisivi mutamenti sociologici derivati dalla grande guerra: la formazione di una nuova classe dirigente interessante tutti i settori economico-sociali; il maggior peso della componente femminile all’interno delle famiglie e nella vita nazionale; l’amalgama tra le popolazioni delle varie regioni d’Italia, specie tra quelle del centro sud con quelle del nord.

Per il primo aspetto, cioè quello riguardante la formazione di una nuova classe dirigente, va considerato che fin dall’inizio della guerra a coprire i ruoli degli ufficiali di grado inferiore e dei sottufficiali furono chiamati giovani ventenni e poco più che avevano un titolo di studio. Allora la maggior parte di coloro che avevano superato le scuole medie inferiori erano dei diplomati delle scuole superiori tecniche ed umanistiche e non dei laureati per compiuti studi universitari (allora l’accesso all’università era molto ridotto). A tutti costoro fu fatta un’istruzione intensiva di due/tre mesi e i diplomati, nominati sottotenenti furono mandati a guidare i reparti al fronte, mentre coloro che avevano studi di grado inferiore divennero ben presto sergenti e pur essi inviati a comandare, secondo la specializzazione militare assunta (genio, artiglieria, fanteria, ecc.) le varie componenti di ciascun reparto.

Alla fine del conflitto, tutti questi ufficiali e sottufficiali avevano acquisito – certamente a duro prezzo – capacità organizzative e logistiche nelle condizioni più diverse, nonché avevano acquisito una diretta conoscenza della natura umana dei sottoposti che operavano in condizioni difficili e quasi sempre pericolose. Soprattutto costoro avevano acquisito esperienze di comando di uomini in relazione agli obiettivi da perseguire.

Una volta congedata questa generazione – che aveva nella massima parte fatto il proprio dovere con spirito di disciplina, dovendo appunto operare secondo vari gradi della gerarchia militare – portò nella vita civile una maturazione che altrimenti non avrebbe conseguito. Da qui nacque quella classe dirigente di alcune centinaia di migliaia di italiani che nei decenni seguiti la Grande guerra organizzarono la vita pubblica ed economico-sociale del Paese. E ciò avvenne sia negli uffici statali, centrali e delle province, che in quelli amministrativi degli enti locali.

Più ancora però l’effetto positivo si sviluppò in sede economica e sociale dove la capacità organizzativa e l’arte del comando diede i suoi frutti nel creare nuove imprese, nell’ammodernare quelle già esistenti, nella conversione della produzione di guerra nell’attività ed efficienza dell’economia di pace.

Furono, appunto questi gli ex combattenti che si impegnarono nel corso degli anni ’20 e 30 in iniziative che riguardavano progetti di ammodernamento strutturale e infrastrutturale. È dell’epoca subito posteriore alla Prima guerra  mondiale la prima industrializzazione dell’agricoltura: basti pensare alle iniziative gestite dalla Opera nazionale combattenti (ONC). Una delle quali fu la “battaglia del grano” per ottenere – anche con l’introduzione di nuove tecniche produttive (per esempio quelle studiate da Giulio Del Pelo Pardi[65]) – una maggiore produzione di cereali dagli stessi areali agricoli che prima ne producevano 5/6 volte di meno.

A ciò si aggiunsero i risultati delle ricerche riguardanti la selezione delle specie di cerali più produttive, nonché l’introduzione di fitofarmaci e di antiparassitari che prima non venivano impiegati.

L’obiettivo nazionale era quello, oltre garantire l’alimento base quale era il pane per tutta la popolazione italiana, anche di ridurre le importazioni dall’estero che gravavano pesantemente sulla bilancia commerciale italiana.

Figura eminente a questo riguardo fu Arrigo Serpieri[66] che, prima come studioso di economia agraria e poi come uomo politico impegnato nel cambiamento programmato del settore, trasformò l’economia rurale da disciplina soprattutto tecnica in un ramo dell’economia nazionale, contribuendo ad elaborare ed attuare quella che fu chiamata “bonifica integrale” riguardante vaste aree del Paese (a cominciare da quella pontina) e la fondazione di nuove città nei territori bonificati.

Naturalmente pure tutti gli altri comparti dell’economia italiana risentirono positivamente dell’immissione di questa nuova classe dirigente formatasi durante il periodo bellico. La ricerca scientifica e tecnica, avviata e affinata per scopi militari, si ripercosse nella qualità e nell’ampliamento dell’industria manifatturiera.

Per esempio ne trasse vantaggio l’industria navale con la costruzione di famose grandi navi per il trasporto dei passeggeri e delle merci e per il potenziamento della Marina Militare. Analogamente si affermò l’industria automobilistica che puntò a dotare un sempre maggior numero di italiani di automezzi di costruzione nazionale; come pure è da ricordare la nascita dell’industria aeronautica che dotò di apparecchi costruiti in Italia la propria compagnia di bandiera, oltre che ad effettuare l’esportazione di velivoli in vari Paesi europei ed extraeuropei. L’Italia a tal riguardo si dotò di una moderna e consistente flotta aerea militare e conseguì famosi primati nei confronti con le maggiori produzioni mondiali in questo settore.

17. Il ruolo assunto dalle donne e l’amalgama unitario degli italiani.

Passando ad altro argomento, pochi hanno posto attenzione al ruolo assunto dalle donne in Italia in conseguenza della Prima guerra mondiale e alla posizione da esse assunta nei decenni successivi.

Naturalmente, poiché la maggior parte degli uomini prima impiegati in agricoltura – come abbiamo già detto – furono mandati al fronte, a lavorare la terra si impegnarono le donne e da ciò esse assunsero la consapevolezza di essere capaci, oltre che di allevare figli, anche di produrre direttamente al posto degli uomini.

Sui 5 milioni e 760 mila richiamati alle armi dal 1915 al 1918, ben 2 milioni e 600 mila furono lavoratori agricoli. Ciò provocò, secondo i calcoli elaborati dal Serpieri, una diminuzione di oltre il 50% di uomini adulti addetti ai lavori dei campi (da 4 milioni 800 mila a 2 milioni e 200 mila) e ciò nell’ambito di un calo complessivo di unità lavoratrici in tutti i settori agricoli di circa un terzo (da 7 milioni e 660 mila complessivi prima del conflitto a 5 milioni e 60 mila unità durante il periodo bellico)[67].

Se il lavoro femminile insieme con quello, naturalmente in quantità inferiore,  dei ragazzi e degli anziani, poté sostituire quello dei richiamati al fronte va tenuto presente che questa sostituzione non avvenne in maniera uniforme in tutto il Paese.

Bisogna, infatti, distinguere le zone del nord nelle quali a causa di contratti particolari già vi era l’apporto produttivo del lavoro femminile, mentre nelle zone dell’Italia meridionale non esisteva se non in modestissima quantità la tradizione del lavoro femminile in agricoltura.

Tutto ciò produsse effetti interessanti l’evoluzione della psicologia riguardante la condizione sociale femminile. Le donne, specialmente nella società centro-meridionale, assunsero un maggior peso nell’ambito delle decisioni all’interno delle famiglie.

Ma vi fu anche un altro fenomeno di notevoli proporzioni: una notevole numero di donne della media e piccola borghesia cittadina (ma pure molte appartenenti ai ceti ricchi e della nobiltà) si impegnarono come Crocerossine, ossia come infermiere e assistenti dei combattenti feriti. Esse furono impegnate sia nelle retrovie che molto spesso anche al fronte[68].

Da ciò nacque un orgoglio non solo patriottico, ma anche di consapevolezza professionale e di indispensabilità sociale.

Se ne ebbero gli effetti negli anni del dopoguerra, quando l’aver come precedente partecipato in quel ruolo alla guerra vittoriosa costituì un titolo preferenziale sia nel lavoro (specie nell’insegnamento nei vari ordini e gradi scolastici), sia nell’accesso alle attività all’interno dei pubblici uffici che nelle attività private direttamente produttive.

Nel primo dopoguerra le appartenenti alle organizzazioni femminili fasciste non furono molto meno numerose e influenti in sede di attività politica ed amministrativa di quelle maschili, nell’ambio delle istituzioni pubbliche italiane.

Il terzo aspetto da sottolineare fu quello di abituare gli italiani dei vari territori della Penisola, abituati ad usi e a dialetti diversi, a stare insieme e ciò avvenne nelle condizioni più drammatiche quale furono quelle, per esempio, delle trincee. Ma anche nei momenti di riposo nelle retrovie ebbero luogo fenomeni sociologici di benefico effetto per l’unità nazionale effettiva.

Già D’Azeglio[69] aveva detto al momento dell’unità d’Italia: «Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani».

E la storica occasione fu data soprattutto dal conflitto svoltosi dal 1915 al 1918. Ben oltre 5 milioni di italiani provenienti da tutte e plaghe del Paese furono concentrati ai confini tra il Trentino e la Venezia Giulia.

Fu certo una conoscenza reciproca fatta per molti anche nella condivisione di grandi sacrifici e di dolorose perdite di vite umane, ma – grazie ai risultati vittoriosi – tutto furono orgogliosi di aver preso parte all’evento. Nacquero amicizie personali. Moltissimi furono i matrimoni fra combattenti di origine meridionale e donne del nord, lombarde, piemontesi, emiliane e soprattutto venete.

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