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Mutamenti strutturali in Italia a seguito Guerra 1915-18

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6. L’impegno economico italiano per lo sforzo bellico. L’espansione manifatturiera.

            La mobilitazione industriale posta in atto dal generale Dallolio[19], era strutturata in Comitati regionali ai quali facevano riferimento le industrie civili mobilitate per la produzione bellica[20]; gli stabilimenti militari invece dipendevano direttamente dal ministro della Guerra.

Le industrie mobilitate venivano dichiarate «ausiliarie» – se giudicate necessarie e adeguate alla produzione per le forze armate – e tutte le maestranze, compresi pure, oltre gli operai, i proprietari, i dirigenti, gli impiegati tecnici e amministrativi, passavano sotto la giurisdizione militare alle dipendenze del «Comitato regionale». Naturalmente tutti godevano dell’esonero dal servizio militare. Questo comportò, sul piano dell’apporto umano, che la guerra fu combattuta soprattutto dai contadini. Già alla fine del 1915 gli stabilimenti dichiarati «ausiliari» erano 221. Sei mesi dopo, al 30 giugno del 1916, erano diventati ben 797[21].

Come abbiamo detto l’Italia si diede durante la guerra una mirabile organizzazione per la produzione bellica. E invero i risultati furono stupefacenti specie se si tiene conto, oltre che della mancanza di esperienze precedenti e della vastità dei problemi che coinvolgevano tutta la nazione, delle difficoltà dei rifornimenti provenienti dall’estero.  La produzione di minerale di ferro salì da 334.000 tonnellate annue del periodo 1909-1913 a quasi 1 milione di tonnellate nel 1917. La stessa produzione dell’acciaio passò da una media mensile di 75 mila, precedenti alla guerra, a 110 mila tonnellate del 1917 e a 100 del 1918. Pure raddoppiò la produzione dell’alluminio e aumentò quella del piombo.

La mancanza del carbone causò forti disagi sia alla popolazione che all’industria e ai trasporti. Dai 10 milioni e mezzo di tonnellate importate nel 1911 si scese agli 8 milioni nel 1916 e ai 5 milioni nel 1917. Purtroppo il fabbisogno italiano fu solo in parte coperto dalla produzione nazionale, che tuttavia aumentò: la produzione di lignite passò da una media di 608 mila tonnellate annue precedenti alla guerra a 1 milione e 720 mila tonnellate nel 1917 e a 2 milioni 171 mila tonnellate nel 1918. Si aggiunga poi che il combustibile italiano era inadatto sia alle fonderie che alle locomotive in quanto ad alto contenuto di zolfo. Fu perciò usato per il riscaldamento e negli stabilimenti a vapore lasciando l’uso esclusivo del carbone d’importazione alle industrie e alle ferrovie. Ma decisivo nel compensare la deficienza di carbone fu il ricorso all’elettricità prodotta dalla forza idrica. La produzione idroelettrica nazionale crebbe dai 2,3 miliardi di kilovattore del 1913-14 ai 4,1 miliardi del 1918-19.

La produzione dell’artiglieria aumentò di sei volte dalla fine del 1913 alla fine della guerra. Pur avendo l’Italia perduto nella ritirata di Caporetto ben 4.000 pezzi, al momento dell’armistizio l’esercito italiano possedeva 7.709 bocche da fuoco, contro le 11.608 della Francia, le 6.690 della Gran Bretagna e le 3.308 degli Stati Uniti. Parimenti per le mitragliatrici la produzione fu fortissima: nel 1915 la dotazione era di 613 pezzi, ma nel 1917, pur dopo le forti perdite, l’esercito ne possedeva ben 19.701.

Nel 1915, nel corso delle due battaglie dell’Isonzo (giugno-luglio), furono sparati meno di 200 mila colpi; nel 1918, alla fine della guerra, nella battaglia del Piave che durò solo dieci giorni ne furono esplosi oltre 3 milioni e mezzo[22]. Tale aumento della potenza di fuoco fu reso possibile soltanto dalla grande espansione dell’industria italiana le cui basi erano state poste nel primo decennio del secolo, ma il cui tipo di struttura e di produzione industriale successiva fu influenzato decisamente dalla guerra.

Pure le industrie automobilistiche e dell’aviazione ebbero una forte espansione. Dalle 400 auto in possesso dell’esercito italiano nel 1915, alla fine della guerra si passò a 2.500, dopo averne esportate 1.071 nel 1917. Come già abbiamo visto ancora superiore fu la produzione di autocarri. L’esercito ne possedeva, nel 1915, 3.400 unità, ma al momento dell’armistizio ne aveva 27.400 e l’industria ne aveva esportati 1.867 nel 1917; pure un incremento avevano avuto i trattori (1915: 150; 1918: 1200) e le motociclette (1.100 nel 1915; 6.000 nel 1918).

L’industria dell’aviazione partì praticamente da zero: all’inizio del 1915 vi erano in Italia soltanto 60 operai specializzati nel settore; nel maggio dello stesso anno erano già saliti a 1.500. Due anni dopo si costruivano ben 16 aeroplani e 21 motori al giorno e nel corso del 1918 la produzione complessiva fu spettacolare: 6.528 aeroplani e 14.000 motori. Nel valutare questi progressi bisogna tener presente, inoltre, lo sviluppo delle attività collegate. Per esempio quella dei pneumatici necessari all’industria automobilistica e a quella aeronautica: l’importazione della gomma fu a tal fine più che raddoppiata.

Pure i cantieri navali ebbero il loro potenziamento. Oltre a produrre per la guerra (unità da combattimento e di supporto bellico e attività collaterali: riparazioni, modifiche, ecc.) nel corso del conflitto furono varate navi mercantili per 178.000 tonnellate. Alla fine della guerra la loro capacità produttiva, tenuto conto dell’acquisizione all’Italia dei cantieri della Venezia Giulia, risultò pressoché raddoppiata.

Quintuplicata fu l’industria chimica, sviluppatasi per la produzione degli esplosivi; autonoma divenne quella farmaceutica (prima dipendente quasi interamente dalla Germania); sviluppatissime quella delle scarpe (da meno di 400.000 paia nel giugno 1915 a più di un milione nell’ottobre dello stesso anno), quella tessile (uniformi, tende, ecc. per l’esercito), quella metalmeccanica (per esempio, le teleferiche necessarie alla guerra di montagna), quella del legname (che ne fornì all’esercito nel 1918 ben 2 milioni di metri cubi).

Analogamente le industrie ottiche, della meccanica di precisione e della elettromeccanica ebbero grande impulso a seguito della produzione per la guerra. Sparita la presenza dei prodotti tedeschi, che prima tenevano il mercato nazionale, per questi comparti si presentarono prospettive allettanti.

 

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(1915-1918)

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Nel complesso, fatta base 100 nel 1938, l’indice della produzione delle industrie manifatturiere, dal valore 54 del 1914 salì a 62 nel 1917-18 e la percentuale dell’incidenza del settore industriale sul prodotto lordo privato totale passò dal 25 al 30,45.[25] In particolare i comparti metallurgico, meccanico, elettrico, chimico ed estrattivo, che – come abbiamo detto – avevano subìto una forte recessione nel periodo precedente la guerra (nel 1907 e nel 1911) acquistarono una notevole importanza. Il capitale delle relative aziende finì per costituire più della metà del capitale azionario delle società che svolgevano la loro attività nel settore industriale.[26]  Come già accennato, dunque, la guerra stava imprimendo un forte sviluppo al settore industriale e in particolare alle attività più moderne.  Le spese di guerra e in conseguenza di essa si sono trascinate fino al 1935.