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Mutamenti strutturali in Italia a seguito Guerra 1915-18

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9. Il finanziamento della guerra all’interno e dall’estero.

Il costo finanziario globale sopportato dallo Stato italiano per la Prima grande guerra fu di £.150 miliardi e 553 milioni in termini di moneta corrente e di £.39 miliardi e 686 milioni in termini di potere d’acquisto constante con riferimento al valore della lira 1913-14.

Tali spese vanno attribuite anzitutto agli oneri per i servizi di guerra e per i servizi civili connessi direttamente con la guerra. Per i reparti mobilitati dell’esercito, della marina e dell’aeronautica, in lire correnti, nel periodo 1914-15/1918-19 furono spesi 58 miliardi e 848 milioni (79,02%) su un totale di 70 miliardi e 470 milioni; successivamente ebbero prevalenza le spese per i servizi civili connessi e consequenziali alla guerra nel quadriennio 1919-20/1922-23: le spese per i servizi miliari ammontarono a 18 miliardi e 881 milioni e quelle per  per i servizi civili a 38 miliardi e 883 milioni (67,31%) per un totale di 57 miliardi e 764 milioni.

Delle spese posteriori alla guerra quella che in seguito assunse sempre maggiore importanza fu l’erogazione per le pensioni privilegiate di guerra: 1922-23 lire 1.470 milioni, scese nel 1934-35 a 1.115 milioni.

I mezzi finanziari per far fronte alle spese connesse con la guerra, che si dilatavano ogni giorno di più, furono reperiti dai prestiti pubblici all’interno e all’estero e dai crediti aperti al governo italiano dagli alleati, e ciò dopo aver constatato l’assoluta insufficienza delle entrate tributarie non solo normali, ma anche straordinarie.

Naturalmente l’altra fonte di finanziamento fu costituita dall’emissione di cartamoneta di contenuto inflattivo, destinata a far pagare ai fornitori e a tutti i percettori di redditi una parte della guerra attraverso la tosatura del valore reale della moneta.

Lo svilimento della moneta serviva inoltre a compensare gli oneri per gli interessi e per una parte del capitale dei prestiti interni emessi dallo Stato, mentre l’accensione dei prestiti esteri diretti presso i governi alleati era confortata dalla speranza – successivamente parzialmente realizzata – di non dover poi effettuare i rimborsi.

L’Italia, per far fronte alle esigenze della guerra, provvide all’emissione di un prestito pubblico all’estero.

Con decreto luogotenenziale  del 13 giugno 1915, n.865 e con le successive variazioni, il governo fu autorizzato a collocare presso i privati e le banche fuori dei confini dell’Italia buoni speciali del Tesoro, in valuta estera sotto forma di sconto, al saggio fissato di volta in volta dal ministro del Tesoro. Detti BST venivano emessi alla parità aurea, ossia a lire 25,22 per la sterlina e a lire 5,18 per il dollaro; alla scadenza i buoni venivano rinnovati nel loro ammontare alla stessa parità e veniva emesso un altro buono per l’ammontare degli interessi maturati. La differenza tra la parità e il corso dell’oro costituiva la quota di cambio.

Le entrate per tali prestiti, introitate per questa strada dallo Stato italiano furono di lire 17 miliardi e 261 milioni (lire 11 miliardi e 988 milioni per il periodo dal 1915-16 al 1922-23, più lire 5 miliardi e 278 milioni per il periodo dal 1923-24 al 1926-27.

Il complesso dei prestiti ricevuti dall’Italia in occasione della guerra 1915-1918, secondo quanto risultò poi dalla regolamentazione determinata dal piano Young, fu di 24 miliardi e di 221 milioni di lire oro nel 1913.

Successivamente i pagamenti dei debiti di guerra si trascinarono per molti anni e furono oggetto di vari accordi. Verso la fine del 1925 restavano ancora da pagare gran parte dei debiti con gli Stati Uniti e l’Inghilterra (mentre con gli altri Paesi gli impegni erano già stati estinti). Con gli USA un primo accordo fu concluso il 14.11.1925 (quote di ammortamento fino al 1957!) e con l’Inghilterra un primo accordo fu concluso il 27.1.1926 (quote di ammortamento fino al 1988!).

In seguito questi accordi furono modificati in conseguenza della definizione della modalità ed entità del pagamento delle riparazioni tedesche (piano Dawes), sia del piano Young (1930) che della moratoria Hoover (1931), che doveva durare un anno solo, ma che divenne sine die  con la conferenza di Losanna (1932).

L’Italia dopo il 1924 fece fronte al pagamento dei debiti con l’Inghilterra e gli Stati Uniti con  il provvedimento delle riparazioni tedesche e ciò fino alla conferenza di Losanna.

All’interno, per provvedere alle esigenze determinate dalla guerra, furono emessi cinque prestiti nazionali:

1. D. 19.12.1914, n.1371 per un miliardo di lire e offerto in sottoscrizione al saggio del 4,5% e al prezzo di £.97 nominali.

2. D. 15.6.1915, n.869 per somma illimitata al tasso del 4,5%, al prezzo di lire 95 nominali e la clausola del trattamento del prestito più favorito che fosse stato emesso a tutto il 1916. Ai sottoscrittori del primo prestito i titoli furono offerti a lire 93 nominali. In complesso le sottoscrizioni ammontarono a un miliardo e 151 milioni di capitale nominale.

3. D. 22.12.1915, n.1800 per somma illimitata al tasso del 5% netto e al prezzo di emissione di 97,50 lire nominali. Per questo terzo prestito furono previste facilitazioni di acquisto per gli acquirenti del prestito precedente. In totale furono emessi titoli per 4 miliardi e 66 milioni dei quali oltre 2 miliardi in contanti e il resto conferendo titoli precedenti.

4. D. 2.1.1917, n.3 per somma illimitata al 5% netto e al prezzo di lire 90 nominali con la clausola del trattamento del prestito più favorito che fosse stato emesso durante la guerra. Mentre i tre precedenti erano dei debiti redimibili, questo quarto fu un debito consolidato e ne fu dichiarata l’inconvertibilità fino al 1931. Pure per questo quarto prestito furono previste facilitazioni di acquisto ai portatori dei titoli precedenti. Le emissioni ammontarono a 7 miliardi e 150 milioni dei quali poco più della metà furono pagate in contanti.

5. D. 6.12.1917, n.1860 per somma illimitata al saggio del 5% e al prezzo di emissione di lire 86,50 per 100 nominali. Per il resto ebbe le stesse caratteristiche del precedente più una forma di assicurazioni mista a favore dei sottoscrittori attraverso l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni.

Le emissioni ammontarono a 6 milioni e mezzo di lire di capitale nominale. Va ricordato che nel 1916 si effettuò l’emissione dei Buoni del Tesoro con scadenza da 3 a 5 anni, al 5%.

Riassumendo, per i due periodi 1914-15/1918-19 e 1919-20/1922-23 il totale dei debiti, quale risultò dai rendiconti del bilancio dello Stato, fu di 73.932 milioni di lire correnti.

10. Le sovvenzioni dello Stato all’economia di guerra.

            Le industrie che producevano per la guerra avevano facile accesso ai finanziamenti e all’inizio – in relazione alle impellenti necessità belliche – potevano chiedere qualunque prezzo. De Stefani[37] documentò come in base alle disposizioni emanate sotto l’assillo di riempire velocemente le deficienze di una mancata preparazione, l’amministrazione militare non fu obbligata a sottoporre le spese per i rifornimenti al controllo della Corte dei conti (d.4.8.1914).

Successivamente nel 1917 venne creata una Commissione consultiva per la revisione dei prezzi col compito di confrontarli con i costi effettivi. Il risultato fu che su 405 contratti esaminati dal gennaio 1917 all’aprile 1918 ne vennero respinti ben 203. Tuttavia i profitti furono sempre notevoli e si ricorse all’imposizione fiscale per limitarli. Si calcolò poi che lo Stato attraverso questa strada abbia recuperato il 6% delle somme versate. In ogni caso fin dall’inizio del 1916 fu regolata per decreto l’utilizzazione  dei profitti delle società, sottraendola al libitum  degli amministratori e sottoponendola al beneplacito statale. Comunque con la tassazione dei profitti di guerra non si volle scoraggiare l’espansione degli investimenti anche perché si richiedevano agli industriali sempre nuovi sforzi.

Per comprendere i problemi che si posero allora e che ebbero lunghe e dolorose conseguenze in seguito, va osservato che gli stabilimenti dell’industria pesante continuarono a espandersi sino al giorno dell’armistizio in quanto le truppe nemiche continuarono a combattere e a tenere il fronte fino all’ultimo giorno di guerra. Il collasso dell’esercito austro-ungarico – come d’altronde di quello tedesco – fu improvviso e non graduale, e dovuto soprattutto – come è noto – alla disperata situazione alimentare, specie nel fronte interno, ma anche delle truppe – piuttosto che per il venir meno dell’efficienza militare e delle dotazioni in armi e munizioni.

Quindi non fu possibile programmare una graduale riduzione della produzione di guerra. Rimasero così disponibili rilevanti quantitativi di mezzi e di attrezzature belliche che la fine della guerra aveva trovato appena prodotti. Inoltre molti stabilimenti avevano possibilità di produrre più di quanto il mercato italiano potesse assorbire e a prezzi che non potevano essere concorrenti sul mercato internazionale. Ci riferiamo evidentemente non alla produzione bellica, ma soprattutto ai metalli, al ferro, alla ghisa, all’acciaio e in genere ai semilavorati.

Perciò grandi imprese, metallurgiche, per esempio, come l’Ansaldo e l’Ilva, si trovarono, insieme con le banche che le sostenevano, in una situazione priva di sbocchi quando cessarono le commesse governative di cannoni e di corazze. Invece altre imprese meccaniche che producevano automobili, autocarri, autocorriere, aerei, trattori, oltre che armi, come per es. la Fiat, poterono velocemente convertire la loro produzione secondo le  esigenze del tempo di pace e provvedere così alle nuove richieste di mercato, approfittando dello sviluppo che avevano raggiunto durante il conflitto[38].

Sul piano finanziario l’interventismo statale ebbe un concreto istituto del tutto nuovo rispetto alla concezione precedente.

Appena scoppiata la guerra in Europa nell’agosto 1914 e in previsione dell’entrata dell’Italia si pose il problema, da un lato, di procurare sufficienti finanziamenti alle industrie che si sarebbero impegnate nella produzione bellica e, dall’altro, di non abbandonare a se stesso il mercato dei titoli industriali.

Il direttore della Banca d’Italia, Bonaldo Stringher, si fece promotore del Consorzio per le sovvenzioni sui valori industriali (rd20.12.1914, n.1375), con capitale iniziale di 25 milioni sottoscritti dalla Banca d’Italia, dal Banco di Napoli e dal Banco di Sicilia (ossia da quelli che allora erano gli istituti di emissione), nonché da banche di diritto pubblico e da Casse di risparmio[39].

In tal maniera si assicurava oltre all’eventuale intervento sul mercato dei titoli anche la possibilità di aiutare gli istituti di credito ordinario che potevano averne bisogno[40]. Nella Relazione della Banca d’Italia per il 1914 l’istituto era definito «eccezionale e transeunte», ma invece divenne definitivo e base per una prassi costante.

Intanto posiamo dire che durante la Prima guerra mondiale il Consorzio garantì alle imprese impegnate nella produzione bellica il credito necessario e a condizioni vantaggiose, senza incidere in maniera inflazionistica sulla circolazione monetaria e con costi bassi per la comunità nazionale. Il Consorzio – che agì senza «far rumore intorno a sè», come ebbe a scrivere nel 1920 Stringher a Meda, ministro del Tesoro[41] – non dovette intervenire in difesa dei corsi azionari: la sua stessa esistenza era stata una remora al panico che avrebbe potuto assalire i portatori di titoli i quali, d’altra parte venivano compensati, almeno nominalmente, dal lievitare dei valori conseguente al deprezzamento monetario.