Mutamenti strutturali in Italia a seguito Guerra 1915-18
11. L’emissione supplementare di moneta.
Tra le forme di finanziamento della guerra si provvide, come già detto, oltre che con il ricorso al risparmio interno ed estero, con l’emissione di biglietti di banca da parte degli istituti di emissione. Naturalmente è impossibile quantificare in maniera matematica l’entità di queste forme di finanziamento determinata dal deprezzamento della lira.
Comunque approssimativamente si può dedurre il peso dell’ammontare della moneta emessa per conto del Tesoro.
Va notato che il deprezzamento della lira ebbe luogo, a grandi linee, in tre fasi: una prima di circa il 20% tra il 1914 e il 1918 (con pesanti punte negative negli anni più duri del conflitto); una seconda fase vide una caduta a meno di un quinto della fine del 1920 rispetto al 1914; la terza fase vide ridotta la caduta della moneta italiana a poco più di un quarto, a fine 1922.
Mentre al 30 giugno 1914 la circolazione bancaria italiana era tutta, come si diceva allora, del “commercio”, ossia per conto del sistema economico direttamente produttivo, e non vi era circolazione per conto del Tesoro, quest’ultima negli anni successivi si accresce fino a raggiungere, alla fine del 1917, oltre il doppio di quella del commercio e mantenendosi superiore fino a tutto il 1920, anno in cui il corso medio della lira scende – come abbiamo già detto – a poco più del 18 per cento del valore che aveva nel giugno 1914, ossia prima dello scoppio delle ostilità in Europa.
La circolazione per conto del Tesoro era molteplice e comprendeva varie voci sempre in tema di emissione di biglietti: ordinaria[42], straordinaria[43], anticipazioni speciali e somministrazioni[44].
Il momento di massima circolazione si ebbe dunque nel dicembre 1920 con 19 miliardi e 700 milioni di lire dovute all’incremento sia della circolazione per il Tesoro che di quella per il sistema direttamente produttivo.
Mentre per la circolazione per il Tesoro l’aumento appare giustificato dalle esigenze consequenziali alla guerra, l’aumento per il “commercio” – secondo Einaudi – non ha giustificazione. Esso servì, per l’economista, esclusivamente a sovvenzionare le industrie di Stato, nell’interesse dei privati; a sostenere gruppi industriali che non avevano ragione di continuare a mantenere in pace le dimensioni che avevano assunto con la guerra; a fornire mezzi dispersivi a esperimenti pseudo-cooperativistici[45]. La caduta della moneta nel 1920, ossia il suo deprezzamento a 18 centesimi della lira nel 1914, ebbe luogo appunto a guerra finita e non fu – dunque – dovuto alla guerra ma alla politica economica condotta. Tra le cause – oltre quelle già citate – va ricordato il costo per il mantenimento del prezzo politico del pane.
Il pane – alimento base della popolazione italiana – per evidenti ragioni sociali e politiche veniva venduto sottocosto sopportando lo Stato la differenza. Purtroppo con il passare del tempo il consumo della farina si era prestato ad abusi in quanto, dato il basso prezzo, veniva usata anche per l’alimentazione del bestiame. Si aggiunga pure che nel 1920 il raccolto fu inferiore al normale a causa delle sfavorevoli condizioni atmosferiche[46]. Perciò, sia per gli abusi, sia per la carenza stagionale venivano dilatati gli oneri per l’importazione (nel 1920-21 il costo medio del grano importato fu di lire 230 al quintale, mentre il prezzo di cessione fu tra le 60 e le 70 lire al quintale): la perdita per l’erario si aggirò sui 4 miliardi e mezzo e fu finanziata soltanto con l’emissione di cartamoneta[47].
Nitti tentò nel giugno 1920 di ridurre la perdita, ma senza esito in quanto scatenò scioperi e la caduta del suo ministero. Giolitti, succedutogli, minacciando pesanti tassazioni confiscatrici, fece approvare dalla Camera un progetto che diventò legge il 27 febbraio 1921 con il quale fu abolito il prezzo politico del pane e quindi si ridussero gli oneri per lo Stato evitando in tal modo uno dei maggiori impulsi inflazionistici.