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Mutamenti strutturali in Italia a seguito Guerra 1915-18

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14. I cambiamenti strutturali della società italiana indotti dalla guerra.

            Si scontrarono in questo periodo bellico, ossia dal 1915 al 1918, tre concezioni di politica economica: la tendenza statalista-socialisteggiante, quella dell’autogestione cooperativistica e quella liberista. Lo scontro avvenne in tutti i settori dell’economia nazionale, ma assunse gli aspetti più evidenti nel settore del commercio[58]. Le prime due tendenze venivano spesso fatte confluire in un unico indirizzo rivolto a far assumere alle strutture cooperativistiche la funzione periferica e attuativa dell’impostazione burocratico-pianificatoria centralizzata. Un esempio di tale indirizzo fu la proposta avanzata nel luglio 1917 dall’on. Canepa – che già dirigeva il Commissariato degli approvvigionamenti e dei consumi – di costituire un Ente nazionale dei consumi  tra lo Stato, gli enti pubblici di consumo, le grandi cooperative, le banche di emissione (Banca d’Italia, Banco di Napoli e Banca di Sicilia), le Casse di risparmio e le Casse rurali. Lo scopo dichiarato era di evitare i costi dei molti intermediari e quello della eccessiva diffusione dei punti di vendita, ambedue ritenuti causa dell’aumento dei prezzi. Naturalmente l’apertura di nuovi esercizi sarebbe stata subordinata a particolari autorizzazioni. L’intento di questo programma, tuttavia, si inquadrava nel progetto allo studio di una commissione composta dal Psi e dalla Cgil, riguardante l’assetto economico del dopoguerra, per una politica comune con la lega delle cooperative e rivolta alla trasformazione dello Stato in senso socialista.

La proposta di Canepa fu avversata dagli esponenti liberali in Parlamento e dai maggiori economisti dell’epoca. Si preferì perciò affidare la distribuzione delle derrate a enti pubblici, con esclusione deliberata delle cooperative, mentre le singole categorie si organizzavano proponendo un’alternativa sia all’inquadramento burocratico che al sistema cooperativistico.

Venivano in tal maniera a maturazione i problemi posti dall’aumento della popolazione, dal suo inurbamento e dalla sempre maggiore articolazione delle attività economiche a seguito dell’introduzione delle nuove tecniche di produzione e di organizzazione nelle aziende. La guerra, con le sue esigenze non rinviabili, accelerava le modificazioni e le indirizzava verso strutture coercitive. Ma ciò rendeva più evidente la necessità di forme di autodisciplina che consentissero l’esplicazione della libera imprenditorialità in un quadro normativo che tutelasse l’interesse generale e indirizzasse lo sviluppo futuro. Purtroppo le diverse ideologie distorcevano i termini della problematica e rendevano difficili le impostazioni risolutive per cui le discussioni di politica economica restavano alla fine confinate entro i due poli della scelta o integralmente statalista o totalmente liberista, ambedue impraticabili nella loro astrattezza.

La realtà infatti premeva e le soluzioni di emergenza si imponevano. Prima, durante la guerra, per rifornire il fronte dei combattenti e quello interno dei civili, poi, appena terminata la guerra, per vettovagliare le regioni redente e anche sostenere le popolazioni affamate dell’ex impero asburgico.

Non vi è dubbio che le condizioni poste dalle esigenze belliche abbiano stimolato tutte le energie e mobilitato tutte le risorse della nazione, ponendo le premesse per la politica economica del ventennio successivo alla fine della guerra. L’impegno ottenuto dagli scienziati e dai tecnici, lo sforzo compiuto dalle maestranze e dagli organizzatori civili e militari furono il risultato di una intensa azione psicologica volta ad esaltare i valori del sacrificio per la collettività e per il futuro delle nuove generazioni.

Tale condizionamento psicologico generalizzato aveva indubbi e validi fondamenti morali e politici, per cui gli argomenti usati si impressero in maniera indelebile nella immaginazione e nella coscienza di tutti e costituirono le basi delle successive politiche di ammodernamento civile della società nazionale, di espansione territoriale e di autonomia economica. Riteniamo che non si possa comprendere appieno la successiva politica economica fascista se non si analizza la sua origine, che solo in parte fu tratta dall’ideologia nata col nuovo regime, ma fu piuttosto la continuazione, in forme diverse come richiesto dalle diverse condizioni storiche, dello sforzo e dell’impegno posti dal popolo italiano per superare la prova della Prima guerra mondiale[59].

E questo impegno, come già detto, si concretizzò allora in una fortissima espansione delle industrie che producevano materiale bellico e che dopo produssero materiale ferroviario, navi, macchine per l’agricoltura, ecc., per l’economia di pace.

15. Il peso politico e sociale dei lavoratori industriali e dei nuovi proprietari agricoli.

            Da un esame dell’andamento del reddito nazionale durante gli anni bellici e immediatamente postbellici può evincersi una forte crescita del valore aggiunto della pubblica amministrazione, in coincidenza con l’aumento della spesa pubblica, e una diminuzione del valore aggiunto imputabile al settore privato, e già questo è un mutamento economico-sociale di rilievo non indifferente direttamente ascrivibile al conflitto mondiale[60].

Ai fini però di un’analisi dell’evoluzione della società italiana in questo periodo non può essere sottaciuto il ruolo svolto dal trasferimento di una parte non indifferente della ricchezza nazionale alle imprese industriali impegnate nella produzione bellica (siderurgiche, meccaniche, chimiche, ecc.) poiché – a prescindere da ciò che tale operazione rappresentò nell’economia italiana sia come rottura di equilibri prebellici, sia come modificazione di talune linee di sviluppo, sia come accelerazione di tendenze latenti, sia ancora come spinta alla fusione tra interessi industriali e interessi bancari[61] – tale fatto ebbe conseguenze immediatamente percepibili sulla stratificazione sociale del Paese, come si ricavava da un’analisi della dinamica delle variazioni salariali.

Il proletariato industriale vide, infatti, durante il periodo bellico, salire i salari nominali (pur se a tale aumento corrispose una flessione di quelli reali per il lievitare dei prezzi) in misura di gran lunga superiore a quanto accadde per il ceto impiegatizio, pubblico e privato, che risultò economicamente colpito dagli effetti della guerra in modo certamente più pesante soprattutto in termini di diminuzione delle retribuzioni reali. Di qui, tra l’altro, ebbe origine quello stato di insoddisfazione, quella sensazione di inferiorità dei ceti medi nei riguardi, per un verso, della borghesia industriale e commerciale e, per un altro verso, degli operai «privilegiati e imboscati», che, insieme ad altri fattori, avrebbe fatto ben presto sentire il suo peso e la sua influenza sulle vicende politiche degli anni successivi.

Anche nelle zone agricole la guerra divenne un potente acceleratore di trasformazioni economico-sociali. Si può anzi affermare che le conseguenze del conflitto sull’ambiente rurale italiano furono assai più articolate e differenziate di quelle interessanti le aree urbane, se non altro perché accentuarono un processo di differenziazione sociale nelle campagne legato al notevole incremento di coltivatori diretti – dovuto ai numerosi passaggi di proprietà – e alla diminuzione di fittavoli e mezzadri.

Le condizioni del mondo rurale erano già di per sé diverse da quelle del mondo urbano: la produzione agricola non aumentò, come avvenne invece per quella industriale, anche se vi fu un largo impiego di manodopera femminile e di minori; sotto il profilo qualitativo non vennero adottate innovazioni tecniche; il regime vincolistico dei fitti e la lievitazione dei prezzi agricoli avvantaggiarono alcune categorie, quelle dei grandi e medi affittuari, dei proprietari coltivatori, dei mezzadri e ne danneggiarono altre come quelle dei grandi proprietari di terre e quelle dei salariati.

Il periodo bellico e anche quello immediatamente successivo mostrarono come linea di tendenza quella all’accrescimento della piccola proprietà coltivatrice e alla liquidazione della grande borghesia agraria. L’andamento di tale evoluzione si può ben cogliere in questa tavola elaborata sulla base dei dati dei censimenti ufficiali[62]:

Censimenti

1901

1911

1921

Totale

%

Totale

%

Totale

%

Coltivatori diretti

2.583.000

26,9

1.715.000

19,0

3.427.000

33,6

Fittavoli

800.000

8,3

727.000

8,1

696.000

6,8

Mezzadri

2.010.000

20,9

1.581.000

17,5

1.590.000

15,6

Salariati

4.188.000

43,6

4.974.000

55,1

4.465.000

43,8

Altri

29.000

0,3

27.000

0,3

22.000

0,2

Totale 9.610.000

100,0

9.024.000

100,0

10.200.000

100,0

 

La guerra, insomma, determinò cambiamenti strutturali di notevole portata nella società italiana influenzando la composizione qualitativa e quantitativa della sua stratificazione sociale. E questo fu vero sia per il mondo dell’industria che per quello dell’agricoltura, sia per il mondo della burocrazia impiegatizia che per il mondo del commercio e dei servizi. La storiografia di ispirazione marxista ha sostenuto che i mutamenti intervenuti in ambito rurale non avrebbero modificato la struttura di classe delle campagne italiane pur riconoscendo che una consistente fetta di contadini ebbe modo di passare nel campo dei proprietari[63]. Invero, come ha sottolineato Corrado Baberis, le cose stanno in altro modo, poiché ai contadini divenuti proprietari non toccò soltanto la terra, ma anche una sorta di potere politico[64].