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Pierpaolo Piccioli: «È sbagliato raccontare un abito con Instagram»

Lo stilista di Valentino si racconta dopo la separazione da Maria Grazia Chiuri: «La moda per me è un lavoro serio. È consegnare dei messaggi, dare dei valori»

Si è sentito «nudo». «Ecco la verità». E lo dice alla fine, dopo aver chiacchierato di tante cose. Un parola liberatoria. Senza rimpianti. Un punto e a capo. Pierpaolo Piccioli alla sua prima intervista dopo la «separazione» (consensuale) da Maria Grazia Chiuri «compagna» di una vita lavorativa e del successo alla guida di Valentino, è entusiasmo e consapevolezza allo stato puro. Si muove qui a Mosca come una star pur restando l’uomo «a-tipico» (così si definisce lui) di sempre.

Quando un uomo e una donna si separano è luogo comune chiedersi se lui se la caverà. Così in tanti si sono stupiti della sua incredibile (all’unanimità la più bella sfilata della stagione) prova! Se ne è accorto?
«No, non così tanto. O forse non l’ho voluto percepire. Però ci sta. È ovvio. Eravamo in due nello stesso percorso consolidato e io ero rimasto da solo lì, non in un altro posto. Poi quella mattina, quando sono arrivato in location, ho visto il lavoro, le modelle e gli abiti e il resto. Ed era come immaginavo e volevo, allora ho capito che ero contento, che era un Valentino tutto mio. E mi sono emozionato, io che sono molto control freak. Io uomo e lei donna? Non divido il mondo in generi ma in persone, che mi possono piacere o meno. Individui. Io, per esempio, sono “a-tipico” ma risolto».

Perché non si vede un uomo «tipico»? 
«Tanto per cominciare faccio moda. Ho tre figli. Vivo a Nettuno. Non faccio la vita dei designer, non giro tra feste e castelli eppure riesco a spingere la mia creatività oltre l’immaginazione perché penso che possa più la profondità che la mondanità. Non soffro di machismo».

Lavorare da single è? 
«È stato più facile. Ho potuto lavorare sull’onda delle emozioni e consegnare quello che realmente avevo nella testa. E connettere le mie idee in maniera del tutto personale: come mettere insieme l’angelo di Giotto con la ragazza punk, perché secondo me hanno lo stesso tipo di innocenza, non è spiegabile ma è così. Come la bellezza che non vedo negli attributi ma in qualche cosa che sta dentro ogni donna e che ha a che fare con la grazia, la sensibilità, il romanticismo. Ecco perché mi ritrovo nel Quattrocento italiano dove le Madonne sono l’ideale non per i capelli lunghi o la pelle di seta ma per la luce che irradiano. E oggi c’è bisogno di tirare fuori quel tipo di messaggio interiore che rende ogni persona speciale. E l’individuo è diversità. E la diversità è un valore e quando vedo che vince chi nega le differenze e parla di intolleranza, allora mi arrabbio. Sì, mi riferisco a Donald Trump che significa un passo indietro. E anche chi fa un lavoro come il mio non può chiudere gli occhi».

Il Valentino di domani? 
«Non si arriva mai. Voglio continuare senza darmi dei limiti ma seguendo il percorso che abbiamo intrapreso. I negozi, ma anche le sfilate. Voglio dare sempre più peso alle pre-collezioni, perché sono un momento importante e sono una vera narrazione. E poi le capsule che raccontano sempre storie nuove».

Momento confuso per la moda: mercati che sfuggono al controllo, stagioni che si accavallano, settimane della moda che parlano linguaggi diversi. Come la vede lei? 
«Dico subito che il see now buy now è una cosa sbagliata, è la negazione del sogno e del desiderio. E con queste operazioni e altre penso che la moda cerca di essere troppo popolare. Così come si tende a spiegarla troppo. C’è bisogno degli addetti ai lavori che vedano e raccontino e decodifichino ma l’avvento dei blogger, degli instagrammer, ha tolto la magia e ha creato l’illusione che tutti potessero parlarne e scriverne, e poi vestirsi convinti di fare styling. Ma la moda per me è un lavoro serio. Nel senso che non è solo mettere insieme dei vestiti. È anche consegnare dei messaggi, dare dei valori. Far passare l’idea che tutto sia facile, immediato, che è sufficiente un minuto per comunicare un abito e poi si passa all’Instagram successivo non va bene. Dietro c’è un lavoro grande e consistente e ci sono persone, tecniche, tradizioni, lavoro, rigore. E c’è il talento che vale più della fama. La popolarità non è un valore, ma i social lo fanno credere. Così la moda è diventata un mondo e non un mestiere, ma c’è bisogno che torni a essere quello che era e non un mezzo per vendere. Vorrei pensare al mio lavoro come a una bottega dell’arte contemporanea e che chi la vede da fuori la percepisca non come la ragazza saltellante su Instagram ma come un’azienda con dei valori».

Le piace una parola «antica» come stile? 
«A me ri-piace proprio perché significa identità. E tutto torna. E confido in un nuovo umanesimo per definirlo».

E del lusso «democratico», più accessibile, che è la nuova sfida di alcuni cosa dice come uomo con il cuore (sembrerebbe) a sinistra? 
«La democrazia deve garantire la sanità, la scuola, il sostentamento a tutti. Questo penso. Il lusso low cost? Il lusso non è prezzo, ma cultura. Si possono fare degli oggetti più accessibili ma non si può fare un’alta moda democratica anche solo per il fatto che è esclusiva. Se tre persone lavorano a un abito per giorni non puoi pensare che sia per tutti ma è mio dovere assicurarmi che chi lo confeziona abbia uno stipendio giusto. Detto questo, ci possono essere oggetti più accessibili, non lo sono forse i jeans o le sneaker? Ma devono corrispondere ai valori a garanzia di una storia. Questa per me è democrazia: perché non ci sono clienti di serie A o di serie B».

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