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Welfare Aziendale

WELFARE SUSSIDIARIO e voucher aziendali

di Stefania Galimberti

Negli ultimi dieci anni in Italia si sono affermati specifici fenomeni demografici, tra cui la crescita, l’aumento della durata della vita e invecchiamento della popolazione, la riduzione della natalità e della fecondità, la diversificazione del ruolo delle donne, la riduzione della consistenza numerica delle famiglie e l’affermazione di nuovi modelli familiari, l’incremento della disoccupazione, della diffusione delle condizioni di povertà e dei rischi di impoverimento, la complessità ed eterogeneità dei bisogni.

Inoltre, il triennio 2009-2011 e il primo semestre 2012  sono stati  periodi neri per l’occupazione. La crisi economica ha colpito anche il mercato italiano, creando disoccupazione e lasciando emergere una serie di problemi legati alle politiche sociali e alla tenuta dei sistemi di welfare, compreso il  ricorso alla cassa integrazione ordinaria, ma soprattutto straordinaria e in deroga. Sono notizie di questi giorni dopo la pubblicazione del rapporto Istat sulla povertà, nel quale emerge che la famiglia come welfare alternativo non regge più e con gli ulteriori tagli previsti più donne rimarranno a casa e il nucleo familiare diventerà sempre più povero. In questo scenario emerge il ruolo del welfare aziendale, quale strumento di contenimento degli effetti della crisi sui lavoratori: iniziative di assistenza e previdenza volte ad agevolare la vita dei dipendenti. Si tratta di un fenomeno che non si sostituisce alle istituzioni pubbliche, ma interviene secondo una logica integrativa laddove emergono alcuni bisogni, ed  è trasversale e inclusiva per il territorio. Il welfare aziendale si inserisce in un prospettiva di ridefinizione delle relazioni industriali che non va solo nella direzione di una maggiore flessibilità, ma anche nella condivisione delle responsabilità e dei costi della crisi economica, nel riconoscimento del fatto che la crisi produce effetti che vanno ben al di là degli aspetti strettamente economici, ma chiamano in causa la tenuta del corpo sociale.

Il tema della responsabilità sociale ha posto le basi per riflettere sui modelli di relazioni tra impresa, dipendenti, rappresentanze sindacali, e non solo. Da uno dei tanti confronti emersi nella Uil nazionale, (la Uil ha costituito un’apposita commissione sul tema) è scaturita l’idea che una nuova forma di welfare aziendale, a maggior ragione in un momento di crisi economica come questo,  può diventare strumento per venire incontro alle esigenze dei lavoratori, creando un clima più coeso. Intervenire sulle associazioni di imprese per legare e tessere una rete arrivando a tutti i lavoratori anche a quelli delle piccole e medie imprese, contribuendo di fatto alla rinascita dell’attività imprenditoriale con proposte di interventi concreti a favore della crescita di occupazione giovanile, in forte calo secondo le ultimissime stime ISTAT . Si intende, dunque, proporre l’avvio di un nuovo percorso di condivisione e progettazione negoziata del sistema di welfare locale, che si realizza attraverso la concertazione – intesa come partecipazione collaborativa – tra tutti i soggetti interessati allo sviluppo sociale della nostra comunità, producendo come esito finale la sottoscrizione (potremmo chiamarlo così) di un nuovo patto sociale. Andrebbe analizzato quanto c’è di buone prassi sul territorio e, tramite una rete, estenderle sia a livello aziendale ma anche interaziendale e soprattutto nel territorio. Rendere disponibili le esperienze collaudate nel tempo, riproporle se del caso e, soprattutto, ascoltare i bisogni delle lavoratrici e dei lavoratori. Ci sono interessanti indagini in tal senso e accordi eccellenti. Da vari studi il dato che emerge è che le lavoratrici e i lavoratori chiedono flessibilità oraria e tempo e i servizi primari e di maggiore interesse sono quelli legati alla persona e al nucleo familiare. Le Regioni potrebbero intervenire al fianco delle reti di impresa, in cui più aziende possono aggregare la loro domanda per individuare possibili soluzioni a favore dei propri lavoratori, con la collaborazione dei soggetti già presenti sul territorio e favorendo sperimentazioni di welfare aziendale e interaziendale sostenute con un finanziamento regionale richiedendo magari alle imprese e ai lavoratori una  compartecipazione al costo complessivo.

Per il futuro si auspica una maggiore adozione del “benessere aziendale”: l’idea di una impresa socialmente competitiva, eticamente responsabile dove, secondo la propria mission, lo sviluppo economico e la qualità della vita dei propri dipendenti e dei loro familiari vengano declinate nell’obiettivo di una forte e permanente competitività sui mercati.  Per analizzare lo stato di salute di una organizzazione lavorativa, è opportuno valutare il livello di soddisfazione del proprio personale in relazione alle aspettative della direzione, agli obiettivi e ai valori aziendali e, soprattutto quale e quanto sia elevato il livello di coinvolgimento del personale negli obiettivi del management. È utile ricordare che l’Italia non è nuova ad esperienze positive di welfare aziendale/territoriale: già negli anni ’50, infatti, nelle aziende Olivetti, prime nel nostro Paese, fu declinato in tutte le sue potenzialità, il concetto di Benessere Organizzativo. Concetto riproposto nel 2006 nella Circolare Nicolais sul benessere Organizzativo come intervento positivo all’interno della P.A. In generale, è vero che le grandi aziende, avendo più risorse, hanno in essere sistemi di welfare più strutturati ma non dobbiamo dimenticare che l’Italia è fatta principalmente di piccole e medie imprese dove esiste un rapporto diretto tra datore e dipendente. Ed è qui che come sindacato dobbiamo intervenire in maniera più incisiva.

Il progetto del welfare aziendale pone l’accento sulla necessità delle aziende di essere volano dello sviluppo non solo economico, ma sociale. Nel mondo economico di oggi, le aziende devono mirare a soluzioni che rendano partecipi i propri lavoratori costruendo le basi per un equilibrio tra impegni personali e lavorativi degli stessi. Così facendo si otterrà un recupero di clima interno notevolmente migliore, rispetto a quello scalfito negli ultimi periodi dalle forti tensioni economiche ed occupazionali intervenendo anche a scongiurare incidenti sul lavoro gravi o mortali che sarebbero ulteriori costi aggiuntivi sia per l’azienda che per la società tutta. Attivandosi cioè, in un’ottica di reciproche convenienze ad esempio sulla riorganizzazione degli orari  di lavoro sulla condivisione delle responsabilità, etc… Come UIL crediamo che il welfare comunque non possa né  debba essere lasciato all’iniziativa individuale, ma indirizzato verso una forma di coordinamento e pianificazione in modo da creare una logica di sistema, evitando sovrapposizioni e sfruttando al meglio le economie di scala. Si danno ai lavoratori servizi a costi ridotti o quasi addirittura azzerati. I vantaggi di questo tipo di welfare non riguardano però solo i lavoratori. Anche da parte dell’azienda c’è infatti un vantaggio perché sulla parte aggiuntiva di salario conferito ai “servizi” ci sono oneri fiscali e contributi migliori. Naturalmente va studiato un paniere di servizi che possa coprire le diverse esigenze dei lavoratori, da quelli con famiglia a quelli senza. E l’accesso a queste risorse, in generale, è garantito per il momento solo o quasi  ai dipendenti stabili: dobbiamo lavorare per estendere gli stessi servizi anche ai precari. Si tratta comunque di un’esperienza importante che vogliamo far diventare in futuro un esempio per migliorare le condizioni di vita e lavoro delle persone. L’inserimento all’interno della contrattazione collettiva territoriale di accordi sulle politiche di welfare può costituire  uno strumento di redistribuzione della ricchezza integrativo dei finanziamenti pubblici, permettendo di sfruttare economie e vantaggi negoziali nell’offerta di servizi a prezzi più contenuti, favorendo a sua volta lo sviluppo e la crescita anche dell’impresa sociale. E’ dalla fine degli anni Novanta che si discute di riformarne i contenuti e le forme, adeguandole alle nuove esigenze della società. Finora il principale esercizio è stato, però, quello di limitarne la spesa attraverso tagli che ne hanno progressivamente ridotto il senso universalistico e l’estensione in termini di diritti realmente esigibili. Perché quella del welfare è una storia di straordinario progresso sociale e civile, che ha segnato positivamente l’affermazione di diritti universali, e che ha avuto proprio in Europa l’incubatore di uno sviluppo legato a principi di qualità sociale.

Una storia lunga e sofferta: basti pensare che le prime, elementari, forme di protezione sociale, risalgono al 1601, quando in Inghilterra furono promulgate leggi sui poveri. Una seconda fase risale alla rivoluzione industriale, quando le prime “assicurazioni sociali” cominciarono a garantire i lavoratori nei confronti di avvenimenti avversi, come incidenti sul lavoro e malattie. Ma è nel dopoguerra che il welfare state si afferma nelle forme attuali. L’idea di sicurezza sociale realizzò un decisivo passo avanti con il Rapporto dell’economista William Beveridge, il quale definì in maniera strutturata, i concetti di sanità pubblica e pensione sociale che trovarono poi applicazione nelle riforme attuate dal primo ministro inglese, Clement Attlee. Fu la Svezia però, nel 1948, il primo paese a introdurre una concezione universale dello Stato sociale. Da quel momento il welfare assume una concezione moderna, rendendo tutti i cittadini portatori di eguali diritti civili e politici. E, per quasi cinquant’anni, questo modello economico e sociale ha garantito a fasce sempre più ampie di popolazione uno sviluppo legato a parametri di qualità e adeguati apparati di protezione sociale. Ma partire dalla fine degli anni 90, in tutta Europa, questo modello sociale entra in sofferenza. In Italia si è sviluppato un sistema di welfare del tutto particolare perché fondato e radicato sulla famiglia. Un ruolo di ammortizzatore sociale, quello del sistema famiglia, che si estende spesso oltre il nucleo familiare vero e proprio, soprattutto per quanto riguarda le attività di cura della persona. Oggi questo modello è particolarmente in affanno per il deficit storico d’infrastrutture sociali, storicamente sopperito dal ruolo di supplenza svolto dalle famiglie, le quali si trovano però a essere maggiormente colpite dalla crisi rispetto a quelle degli altri Paesi avanzati. Lo scenario dell’attuale società italiana presenta giovani sempre più dipendenti dalla famiglia di origine, che si trovano a dover gestire genitori sempre più anziani, in un momento di crisi che disincentiva ulteriormente la propensione a intraprendere percorsi autonomi, a passare dalla condizione di figlio a quella di genitore, a partecipare attivamente non solo alla vita economica, ma anche a quella sociale del Paese. I dati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie, condotta dalla Banca d’Italia, sono eloquenti nel momento in cui evidenziano la caduta del tasso di risparmio e la crescita delle famiglie che non dispongono più di un reddito sufficiente a coprire i consumi di base. E’ proprio sulle famiglie che è stato trasferito il maggior peso di quel sistema di welfare informale che caratterizza il nostro Paese, nel momento in cui gli si chiede di farsi carico della disoccupazione dei figli, della cura dei nipoti e dell’assistenza ai nonni.

Ed è questo lo scenario sul quale riflettere. L’enfasi con cui si parla di famiglia non corrisponde a politiche in grado di sostenerne il ruolo economico e sociale che gli sono attribuiti e richiesti. Ci chiediamo: qual è, quindi, un modello di welfare ancora possibile nel nostro Paese? Entrando nel merito dei voucher, forma di welfare aziendale che stiamo considerando e vagliando nell’osservatorio dell’AREL,  possiamo affermare che tra i vari sistemi da sperimentare in Italia,  il modello francese del CESU risulterebbe il  più appropriato in quanto   la situazione sociale tra i due Paesi è similabile. Occorre dire che la Francia è tra i pochi Paesi europei che hanno sviluppato una esplicita politica sociale destinata alle famiglie. Sicuramente i servizi alla persona devono essere aggiuntivi e non sostitutivi. Il fattore positivo si individuerebbe in un aiuto concreto alle famiglie per avere un ben-essere all’interno dell’azienda. Il rischio invece potrebbe nascere nelle aziende che potrebbero sostituire il premio o salari aggiuntivi con servizi interamente scaricabili come costi e non come fuoriuscite di risorse economiche. Il fatto di avvalersi di un solo circuito potrebbe creare invece un monopolio di fornitura e quindi non generare una sana concorrenza che produrrebbe invece  migliore qualità dell’offerta e quindi un equilibrio qualità-prezzo. Un ulteriore garanzia potrebbe essere un registro centrale dei circuiti la cui centralità dia garanzia di efficienza e serietà e porti ad un risparmio certo di risorse economiche rispetto ad un servizio decentrato. Ritengo che la commistione pubblico-privato potrebbe esistere vista la odierna situazione socio-economica italiana ma la cabina di regia deve  rimanere pubblica, di concerto con il sindacato e previo accordo con le imprese.  I buoni servizio di cui parliamo non sono assimilabili ai voucher lavoro tanto criticati in questi giorni per il settore agricoltura. Quel sistema è sostitutivo nel nostro caso invece rappresenta elemento aggiuntivo ad una retribuzione stabile o quasi stabile all’interno di una azienda. Questi buoni servizio potrebbero aumentare il ben-essere aziendale ma non devono essere sostituzione di retribuzione né tanto meno retribuzione tout court o sostituzione di contratto di lavoro regolare. Sono però favorevole alla loro  introduzione in azienda per facilitare la vita dei genitori lavoratori, pariteticamente parlando, alleviando le incombenze quotidiane o la cura dei figli o dei genitori anziani e/o eventualmente disabili. Assolutamente positivo la strutturazione della rete dei servizi sul territorio che permetterebbe l’accesso anche ai fondi pubblici regionali e/o ai fondi europei.  Formando una rete di imprese, potrebbero  accedere le piccole imprese a questo servizio per i loro dipendenti. Nel contesto economico in cui ci troviamo ora non è una possibilità da tenere non in considerazione. Al momento potremo verificare la sperimentazione prevista nella legge “Fornero”  con l’introduzione di voucher per servizi di baby-sitting.

Ci sono ovviamente già buone prassi da poter studiare, valorizzare ed estendere.  Solo per citarne qualcuna la clausola per alleviare il sovraindebitamento attraverso l’istituzione un fondo all’interno del contratto dei chimico-farmaceutico o come i pacchetti di welfare con servizi alla persona della Luxottica, l’accordo integrativo del gruppo San Pellegrino,  del gruppo Nestlè o notizie dell’ultima ora l’accordo Della Valle. Altre sono in via di definizioni inserite nelle varie piattaforme dei prossimi rinnovi contrattuali. E l’introduzione nelle definizioni del budget aziendale, del cosiddetto bilancio di genere, dopo opportune analisi delle destinazioni dello stesso. Dunque, è importante rinforzare l’impegno e le posizioni da tenere tra i diversi attori sociali che sono implicati, che si considerano e sono considerati responsabili, che hanno realmente delle corresponsabilità nel contrastare il malessere e costruire benessere, non in qualsiasi modo e a qualsiasi prezzo, ma entro l’affermazione e riaffermazione di almeno due principi che sono alla base della convivenza nella città: tutelare i diritti di cittadinanza e promuovere processi di coesione sociale. Un territorio più coeso e solidale è attrattivamente significativo anche sotto il profilo economico – imprenditoriale, gli stessi indicatori che misurano la ricchezza di un Paese attingono a misuratori di benessere sociale e sanitario. Non è possibile pensare uno sviluppo economico scollegato ed indipendente dallo sviluppo sociale.

*Componente Segreteria UIL

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Note a margine da parte del Direttore Editoriale 

Su campo del welfare aziendale e su tematiche a questo argomento collegabili, la Consul Press più volte ha dimostrato un notevole interesse, derivante anche da una propria sensibilità e vocazione comunitaria. Riteniamo infatti che le iniziative giuste debbono essere condivise trasversalmente, superando sia eventuali differenziazioni ideologiche, sia personali simpatie politiche. Con l’occasione desideriamo richiamare l’attenzione su un ponderoso intervento firmato dalla Prof.ssa SERENA ZITTI – dell’ Università di Pescara, dal titolo “Crisi Economica e bisogno di innovazione” (con analisi di interessanti fattispecie aziendali) pubblicato sul fascicolo di ottobre 2011 e presente sul web nella sezione “Nuovi Articoli” – che invitiamo cortesemente alla rilettura da parte dei nostri lettori. Così come più volte, sul nostro web, sono stati analizzati i potenziali vantaggi derivanti dalla utilizzazione delle c.d. “monete complementari” (come lo Scec), nonché da una visione di una “economia di mercato solidale”, da una concezione di una imprenditorialità più locale che globale, di un sistema bancario più attento e più presente sul territorio della “contea”, che non verso mercati internazionali.

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